mercato immobiliare

Taranto, case deprezzate vicino all'ex Ilva: no ai risarcimenti

Vittorio Ricapito

Erano interessati 117 proprietari di immobili del rione Tamburi

TARANTO - Nessun risarcimento per le case deprezzate al quartiere Tamburi a causa delle polveri della vicina Ilva. Ribaltata in appello una sentenza che dava ragione a 117 proprietari di immobili che nel 2010 avevano fatto causa ad Ilva spa, all’ex proprietario Emilio Riva (morto nel 2014) e all’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso, ottenendo risarcimenti dai quattro ai trentamila euro. La sezione tarantina della Corte d’appello di Lecce, presieduta dal giudice Ettore Scisci, ha stabilito che il deprezzamento degli immobili non è stato provato. O meglio, che la svalutazione dell’intero quartiere Tamburi è iniziata negli anni Sessanta con la costruzione del siderurgico a poca distanza dalle case e non causata, come aveva stabilito il giudice di primo grado Pietro Genoviva, con le emissioni di polveri a partire dal 1999. Insomma i magistrati confermano che le case del quartiere Tamburi sono state per decenni invase dalle polveri minerali del siderurgico. Una situazione grave e conosciuta da tutti, tanto che «nessuno ha contestato la consistenza del fenomeno», scrivono in sentenza.

Per la Corte d’appello, però, manca la prova del deprezzamento e il nesso causale con le emissioni indicate nella sentenza di primo grado, relative a un preciso periodo temporale. Pertanto vanno rigettate tutte le domande risarcitorie, sono 117 in tutto, che erano state presentate dall’avvocato Aldo Condemi.Risarcimenti, va aggiunto, che difficilmente sarebbero stati ottenuti dal momento che l’Ilva è finita in amministrazione straordinaria (e i proprietari dei Tamburi non sono ammessi alla procedura fallimentare) e l’eredità di Emilio Riva è ancora giacente. La sentenza civile poneva le basi sul processo penale per getto di cose pericolose, proprio legato alle polveri diffuse sul quartiere Tamburi, che si concluse con sentenza definitiva del 2005 per proprietari e dirigenti dello stabilimento. Per i giudici d’appello, tuttavia, la causa era prescritta prima ancora di iniziare. E poi, entrando nel merito, i magistrati hanno contestato la perizia alla base della sentenza di primo grado. Tre periti avevano analizzato il mercato immobiliare del quartiere Tamburi e stabilito il deprezzamento dei valori. Tesi respinta dai giudici di secondo grado, secondo i quali non erano valide le valutazioni sugli immobili del quartiere, effettuate con parametri di «valore senza inquinamento» e sulla base di confronti con immobili di altri tre quartieri della città. I proprietari delle case, scrivono i giudici in sentenza, avrebbero dovuto chiedere i danni materiali o i danni derivati dal minor godimento a causa di polveri ed emissioni. Eppure cause identiche erano arrivate vincitrici in cassazione.

La causa pilota, intentata nel 2012 da Pellegrino Amato, fondatore del «Comitato per i diritti della casa dei Tamburi», sempre con l’avvocato Condemi, è diventata definitiva a maggio 2019. Proprietario di un appartamento di via Machiavelli divenuto invendibile, Amato trascinò in tribunale il colosso siderurgico e i giudici gli diedero ragione, stabilendo che le tonnellate di polveri minerali rovesciate ogni giorno sul quartiere avevano causato alle abitazioni «danni da immissioni intollerabili». Fu uno dei pochi risarcimenti, 14mila euro, pagati dall’Ilva prima del tracollo. «La controparte aveva fatto le stesse eccezioni che ora sono state ammesse dalla Corte d’appello - dichiara alla Gazzetta l’avvocato Condemi – leggeremo con attenzione e faremo ricorso per Cassazione». 

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