La storia

Un ricercatore dell’Università di Bari nella spedizione italiana in Antartide

Barbara Minafra

Il prof.Mastronuzzi: una grande emozione. Studierà i cambiamenti climatici

BARI - La rompighiaccio italiana «Laura Bassi» ha toccato il punto più a sud mai raggiunto da una nave, segnando un record mondiale assoluto. Fra i ricercatori che partecipano alla campagna oceanografica della 38° spedizione del Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra) c’è Giuseppe Antonio Mastronuzzi, geologo e direttore di Distegeo, il Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari. Per la scuola pugliese, dice, contribuire al progetto «Disgeli» coordinato dal Cnr Ismar che, integrando dati geofisici e geomorfologici dei fondali sottomarini e della fascia costiera della Baia di Terra Nova vuole studiare le fasi di deglaciazione e di arretramento dei ghiacciai negli ultimi 20mila anni, «è la classica ciliegina sulla torta» così come partecipare a questa «grande manifestazione delle capacità logistiche e scientifiche italiane», rafforza e conferma «il ruolo della nostra Università a livello nazionale ed internazionale».

Che emozione si prova a esplorare un luogo mai raggiunto prima e ad analizzare dati assolutamente inediti?

«Esplorare un luogo mai raggiunto prima con dati assolutamente inediti è il mestiere di ogni ricercatore, anche di colui che fa ricerca teorica o solo in laboratorio. Quando si tocca con mano il mondo antartico, ancora in parte vergine, in qualche modo si provano sensazioni differenti: qui l’ambiente aiuta a provare emozioni forti non facili da descrivere, proprie di un mondo in cui i limiti dell’uomo sono evidenti rispetto alla grandiosità, alla forza e alla complessità della natura».

A quali risultati ambisce la spedizione e cosa ci si aspetta di capire?

«La 38esima spedizione italiana del Programma nazionale di ricerca in Antartide è finanziata dal Mur e realizzata dall’Enea per l’attuazione delle spedizioni e dal Cnr per il coordinamento scientifico. Tra le tematiche scientifiche di interesse vi è la conoscenza sempre più approfondita dell’ambiente Antartico che è in qualche modo il frigorifero del pianeta Terra. Ogni aspetto del mondo fisico e del mondo biologico viene esplorato e campionato per acquisire conoscenze sulla dinamica dell’Antartide e sulla sua risposta alle variazioni climatiche e alla presenza dell’uomo, nonché sugli effetti che le dinamiche antartiche hanno sul resto della Terra».

Cosa ha già dimostrato la spedizione finora e perché serve raggiungere un luogo così inospitale?

«In Antartide, nello spessore di ghiacci che lo copre, sono leggibili sia le variazioni climatiche degli ultimi circa 800mila anni sia gli effetti dell’impatto esercitato dall’uomo con attività antropiche su tutto il Pianeta. La sua attuale situazione termica, condizionata negli ultimi circa 180 anni dalle attività dell’uomo e dall’enorme produzione di gas serra, vede la modificazione delle temperature dell’atmosfera e l’accelerazione della velocità di fusione dei ghiacci già dovuta all’alternarsi delle fasi astronomiche. Le masse di acqua rilasciata dalla fusione dei ghiacciai altera la circolazione delle correnti, la distribuzione delle risorse marine e delle catene trofiche con ripercussioni anche sulle faune antartiche. Contemporaneamente la quantità di acqua di fusione resa disponibile agli oceani ne aumenta il livello e minaccia le aree costiere poco elevate dell’intero pianeta.

Nelle aree deglaciate di questo grande continente sono presenti le evidenze dei sollevamenti che derivano dall’alleggerimento della zolla litosferica da parte dei ghiacci fusi il cui studio contribuisce alla definizione delle variazioni globali del livello del mare».

Come si percepiscono i cambiamenti climatici da lì?

«La permanenza di un paio di mesi oltre il circolo polare, di per sè, seppur lunga ed in condizioni climatiche estreme, non permette di percepire direttamente i cambiamenti climatici. Questi invece sono riconoscibili solo attraverso lo studio delle serie climatiche delle stazioni meteorologiche presenti in area, delle variazioni dei volumi dei ghiacci e della posizione dei fronti glaciali oltre che dall’esame di alcune definite evidenze geomorfologiche riconoscibili lungo le aree prive di coperture perenni di ghiacci».

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