Archeologia

Salento, viaggio nel fascino dell’antica Vereto e nel mito delle «Gigantesse»

Toti Bellone

Un tour nell’area archeologica della città messapica, punta estrema del Salento

Appena fuori Patù, il piccolo centro del Capo di Leuca ove svetta il misterioso manufatto, detto Centopietre, costruito nel IX secolo con 100 grossi blocchi di pietra tufacea, una stradina asfaltata s’inerpica sulla collina dell’insediamento archeologico di Vereto. Siamo nella città messapica dell’antica Calabria, citata dai geografi Strabone, Plinio e Tolomeo.

L’ANTICA VERETUM Sorvolando la frazione di Giuliano, a fondo valle, lo sguardo si posa sino a Punta Ristola, dove s’incontrano Jonio ed Adriatico. Sulla destra, un’edicola votiva c’immerge all’istante nella sacralità del luogo. Che Strabone indica come Baris, ed Erodoto, allorché Calabria lasciò il posto a Iapigia, in Hyria, come Brindisi, Oria ed Otranto, fondata dai navigatori cretesi, reduci dalla spedizione in Sicilia ordinata dal leggendario Re Minosse.

L’edicola segna la biforcazione della stradina. Da una parte, si va incontro ad uno stretto sentiero sterrato. Lo strapiombo che s’apre da un lato è sbarrato da una staccionata di legno, alla quale appoggiarsi per godere del panorama, non è consigliabile. L’altro presenta un muro lungo e spesso, alto un paio di metri. Prima che il sentiero si perda in un insuperabile intrico di vegetazione e pietre affioranti, lo percorriamo per un centinaio di metri, ed alla fine risulta chiaro che faccia parte delle mura di cinta della Vereto messapica, che in origine, nel IV secolo avanti Cristo, si sviluppavano per almeno tre chilometri. Fra di esse, venne alla luce una Colonnetta con scritte, alfabetario ed incisioni di navi.

Anche per via della posizione collinare e defilata rispetto a Patù, che è il centro urbano più vicino, il silenzio è assoluto. Tanto che ad uno studioso e ricercatore indipendente, Simone Cordella di Castrignano del Capo, ha ispirato un libro dal titolo evocativo: Le energie dei luoghi.

Tornati indietro, ci attende un secondo camminamento, stavolta asfaltato, lungo il quale due auto non trovano posto. Lo strapiombo su Giuliano ha lasciato il posto alle aie, sette in tutto, ed alle pagghiare. Sino a che, fra i pochi ruderi d’una villa romana, blocchi di pietra in guisa di dolmen e campetti d’erba di San Giovanni, si arriva alla chiesetta che fu l’acropoli del centro messapico, che abitato, in seguito, sino al Medioevo, fu anche Municipio Romano, e molto prima ancora, come testimoniano i resti di capanne e di ceramica d’impasto datati IX secolo avanti Cristo, insediamento dell’Età del Ferro.

LA MADONNA DI VERETO Alla fine di un vialetto alberato ai cui lati sono grosse pietre rettangolari che fungono da seduta, s’erge una chiesetta. L’ingresso è chiuso, e per scoprire cosa contiene, ci affidiamo alle notizie, appena leggibili, impresse su una plancia. Innalzata nel Cinquecento sui resti di una Basilica paleocristiana, è intitolata alla Madonna di Vereto, e deve la sua fama ad un affresco. Rappresentato fra serpi ed insetti velenosi, ritrae San Paolo, che assurto, nella tradizione popolare, a guaritore dai morsi degli animali striscianti e dei ragni, viene da tempo declinato come San Paolo delle Tarante, e per questo, collegato al fenomeno del Tarantismo o Tarantolismo, la sindrome culturale di tipo isterico riscontrata nel Sud Italia, causata proprio dal morso del ragno tarantola.

Tornati sui nostri passi, procediamo in direzione Sud Est, e dopo esserci imbattuti in quel che resta di una necropoli che ha restituito anche un paio di corredi funerari (assieme alla già citata Colonnetta, una ciotola ed un vaso a becco, detto askos, si trovano a Lecce nel Museo Castromediano), all’orizzonte si riesce a vedere uno spicchio di mare. In quel tratto, sorgeva il porticciolo di Vereto, oggi Torre San Gregorio, fiorente per il passaggio delle merci provenienti da Oriente e destinate alla Magna Grecia e viceversa. Della struttura, che beneficiava di numerose sorgenti d’acqua dolce, sono rimaste alcune tracce, quasi tutte sommerse, parti di due camminamenti in conci di carparo, e soprattutto, cinque monete di bronzo di Durazzo coniate fra il 228 ed il 168 avanti Cristo, e le anfore rinvenute in una cisterna.

LE VERGINI E L’ORO DI VERETO Nel IX secolo, Vereto venne annientata dai pirati saraceni sbarcati proprio a San Gregorio, e sulle sue ceneri, nel segno del dolore, nacque l’odierna Patù, il cui nome deriva dal greco pathos, che significa proprio patimento e dunque dolore. Secondo la leggenda, le prime pietre con cui venne edificata, vennero portate a spalla dalle Gigantesse di Vereto, donne energiche e capaci, che se così fosse, ebbero miglior fortuna delle Vergini della città, che i concittadini tentarono di mettere in salvo. Per fronteggiare i saraceni, i Veretini non avevano né i numeri né le armi. Ma prima che i pirati riuscissero a salire la collina, assieme al tesoro in oro ed argento, nascosero le giovani, fra le quali la futura Regina, nella Grotta di Suda, bloccando l’ingresso con massi così grossi e pesanti, che le recluse da sole non avrebbero mai potuto muovere. Nessuno dei Veretini, purtroppo, ebbe salva la vita, e senza acqua e cibo, dopo la partenza dei saraceni, miseramente, le Vergini perirono. La stessa leggenda, narra che nei secoli quel tesoro venne cercato in tutti gli anfratti di quella parte di mare Jonio, ma nessuno lo ha mai trovato, anche perché protetto dalle anime in pena delle Vergini, che con le loro inquietanti grida, mettevano in fuga anche il più coraggioso dei cercatori.

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