L'approfondimento
Clima, economia, ultimi: le ansie del Papa nella nuova esortazione «Laudate deum»
Nel giorno dedicato a Francesco d’Assisi, il Pontefice ha presentato quella che potrebbe esser definita la seconda parte della Laudato si’
Come ricorda il Qoelet «c’è un tempo per uccidere e c’è un tempo per curare»: in che momento della storia siamo e come vogliamo proseguire il complesso cammino sul pianeta? Nel giorno dedicato a Francesco d’Assisi, il Pontefice ha presentato quella che potrebbe esser definita la seconda parte della Laudato si’, cioè l’esortazione Laudate deum. Bergoglio, con la sua solita chiarezza relativa al tema ecologico, ha chiesto nuovamente di invertire la rotta verso un tempo della cura, perché, come ha precisato, «l’origine antropica del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio». Ha poi proseguito ricordando come negli ultimi cinquant’anni la temperatura è aumentata a una velocità inedita, senza precedenti negli ultimi duemila anni. Ancora una volta Francesco ha stigmatizzato il modello della massimizzazione del profitto, che, in alcuni casi, porta stoltamente i governanti a ridicolizzare il tema ambientale.
E questa sua considerazione, per noi che siamo stati attivi nelle passate conferenze sul clima o, spesso, al lunedì, impegnati nella rubrica del quotidiano della Santa Sede, dal titolo Per la cura della casa comune, non ci meraviglia, neanche rispetto ai toni netti usati dal papa, il quale ha ricordato al resto del mondo come, ad esempio, le emissioni pro capite negli Stati Uniti sono circa il doppio di quelle di un abitante della Cina e circa sette volte maggiori rispetto ai paesi più poveri. Che cosa ha voluto ribadire se non che il modello neocapitalistico, che ha il suo fulcro in Occidente, ad oggi, può giudicarsi fallito? Dopo otto anni di distanza da quell’enciclica “verde”, l’appello del Papa è sempre più deciso e forte: forse siamo appena in tempo per correre ai ripari, ma gli entusiasmi delle diverse COP sono stati spesso marginalizzati, accantonati rispetto alle faccende geopolitiche, che non hanno, nel loro orizzonte, il futuro del pianeta, anzi incentivano la devastazione e l’impoverimento della dignità umana. La critica è politica ed è rivolta alla gestione dell’economia che una parte di mondo intende fare, come se fra il profitto e i tavoli mondiali non ci sia di mezzo un legame fra le generazioni, che si concretizza tanto nella perpetuazione delle buone azioni, tanto nel male e negli atteggiamenti di devastazione.
Francesco, guardando al nostro tempo, sconvolto da eventi climatici, da guerre che compromettono tanto la vita umana quanto quella dell’ecologia, vuole ancora una volta spiegare il destino comune di noi tutti, racchiuso nella famosa massima «nessuno si salva da solo». Da dove riparte la Laudate deum? A un primo sguardo si potrebbe dire che riparte dal concetto di “ecologia integrale”, così come proposto nel capitolo 4 della precedente enciclica, in cui si leggeva «non si può più parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni». Era il 2003 quando nella Lettera Pastorale della Conferenza episcopale portoghese è stato scritto che «l’ambiente si pone nella logica del ricevere, perché è un sostanziale prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere a quella successiva». In più occasioni, Bergoglio ha condannato gli atteggiamenti di «apatia socio-ambientale», richiamandosi – anche implicitamente – al volume di Martin Rees Il secolo finale, dove si comprende molto bene come le specie stiano scomparendo a un ritmo cento volte superiore a quello naturale. Da questa nuova esortazione evangelica, occorrerebbe reimpostare una riflessione che era apparsa già molto seria a Glasgow e poi si è attenuata criminosamente.
Una domanda su tutte: come può una parte di mondo arrogarsi il diritto di scegliere per tutti, dimenticando il concetto di “tutela”, a favore di quelle che, il sociologo Bauman, ha chiamato «vite e politiche in corsa»? Un versetto di Isaia (24,4-6) diceva già che la Terra è stata profanata dai suoi abitanti, ma è opportuna una nota a margine rispetto a questo concetto: dall’Amazzonia alla Siberia, passando per la siccità del Sahel, si sta giocando una partita che non considera affatto chi è nato e cresciuto in quei delicatissimi luoghi, che, però, contribuiscono a mantenere l’equilibrio sul pianeta. Dove si è incagliata la politica globale? Si è fatta, con molta incosapevolezza, ingabbiare da quella che Max Weber ha definito «gabbia d’acciaio», che serve a pochi e offre beneficio a pochissimi, ma accontentando i fautori del profitto a tutti costi, produce, contrariamente a quanto ipotizzato, crepe profonde nel mondo del lavoro e migrazioni forzate.