La via della seta

L'avanzata dell'Oriente: le mani della Cina sull’Afghanistan

Francesca Borri

Dopo il disastro Usa, a Kabul è il turno di Pechino tra investimenti e grandi strategie. L’intervento americano si è ridotto a una inutile girandola di dollari

All’aeroporto di Kabul, la bandiera dei talebani ha sostituito quella dell’Afghanistan. Ed è la differenza più visibile. Ma il vero segno dei tempi è un po’ più avanti, agli Arrivi, è un’insegna bianca e rossa. Dice: «Welcome to China Town».

Nel primo anno al potere, i talebani hanno organizzato 82 vertici con la Cina. Uno ogni quattro giorni.

In realtà, la China Town non è un’area di Kabul, ma un complesso grigio e antracite in fondo alla Taimani Road, una delle vie principali: è una specie di spazio espositivo. E non è nuova. Ha aperto nel 2019, e Li Xijing è qui da vent’anni. In un Paese che per molti non è che miseria e jihadisti, vede invece una terra di opportunità. «Esattamente perché non c’è niente», dice. «L’Afghanistan non produce neppure un bullone: ha bisogno di tutto. E noi siamo qui per questo», dice. Indipendentemente da chi è al governo. Dei talebani dice solo: Siamo qui per affari. Nel suo ufficio, ha scaffali e scaffali con pietre e gemme di ogni tipo, oro, ferro, cobalto, rubini, marmo: le famose riserve minerarie di cui tanto si parla. Il sottosuolo dell’Afghanistan è uno scrigno da un trilione di dollari. Vicino, più defilata, c’è una foto in cornice in cui taglia un nastro in mezzo al fango, un investimento minore: la zona industriale in cantiere a nord di Kabul. In cui la Cina sta costruendo 150 fabbriche. Un investimento da 250 milioni di dollari.

Lampadine, stufe, biciclette. Carburatori. Televisori. Qui trovi qualsiasi cosa. Voglio una motosega? Una betoniera? Delle nocciole? O forse un lampione? Scosta un telo, sposta uno scatolo, e tira fuori di tutto. Ha come le tasche di Eta Beta.

E i talebani non sono un problema. Anzi. «Perché sostanzialmente, l’economia qui non esiste. Il 75 percento del bilancio era coperto dagli aiuti internazionali. Che ora sono sospesi. E quindi, per i talebani l’economia è la priorità. Ma non avendo risorse, né competenze, non sono in condizione di importi molti vincoli», dice. Dice: Hai carta bianca. 

In un angolo, c’è un cumulo di tappeti. La Cina è capace di vendere agli afghani persino tappeti.

Il problema sono le sanzioni, semmai. Gli Stati Uniti hanno bloccato le riserve della Banca Centrale. E l’intero sistema bancario. «E che senso ha? Gli afghani non hanno votato i talebani. Perché punirli?», dice. Ma comunque, dice, queste sanzioni sono una cosa americana. «E non è che il mondo si ferma perché gli Stati Uniti hanno deciso così».

La Cina non ha mai chiuso la sua ambasciata a Kabul. Ora che non si combatte più, e le strade sono sicure anche di notte, ha infine avviato gli scavi nella miniera di rame di Mes Aynak, che ha in concessione già da 15 anni. E che ha depositi per oltre 100 miliardi di dollari. E a gennaio, ha firmato il suo primo contratto con i talebani: per il giacimento di petrolio e gas di Amu Darya. Con lavori per 690 milioni di dollari. In questi giorni sta trattando sul litio. Impegnandosi a processarlo in Afghanistan, con 120mila assunzioni dirette e un milione nell’indotto. Ha offerto 10 miliardi di dollari.

Gli aiuti dell’ONU per il 2023 sono 4,6 miliardi di dollari. E finora, sono stati finanziati solo per il 5 percento.

«Gli Stati Uniti qui hanno speso 2,3 trilioni di dollari. Ma così. Improvvisando. Quando sentivo del PIL, dello sviluppo, dei progressi dell’Afghanistan, mi domandavo: ma in base a che, se nessuno manco sa quanti abitanti ha Kabul?», dice Noori Fasihullah, il manager afghano della China Town. «I cinesi invece ti arrivano con tutti i dati. Si studiano il mercato, le sue prospettive. La domanda, l’offerta. Sono completamente diversi. Hanno una strategia. Ed è una strategia molto più ampia dell’Afghanistan: perché è la Via della Seta», dice. E quindi, dice, sono qui per restare. Tirano dritto chiunque sia al potere. «Mentre con la NATO, era imprevedibile: ti andavano via in un’ora perché c’era stato un attentato a Parigi, o perché era tempo piuttosto di andare in Iraq o in Guatemala. Ogni paese aveva i suoi interessi: e l’unica cosa che avevano in comune, è che non erano mai i nostri».

E non è solo questione di studiarsi il mercato, dice. «I cinesi capiscono l’Afghanistan perché stanno con noi. Cioè, proprio vivono con noi: stanno al piano di sopra. Ti consultano su tutto. E così i talebani. Hanno la porta aperta», dice. «Per la NATO, invece, eravamo invisibili: tranne quando era il momento di spararci».

Ancora oggi, i compound dell’ONU sono chiusi agli afghani. In realtà, però, i cinesi stanno qui, sì: ma solo di passaggio. Si fermano l’indispensabile. Perché proprio perché sono cruciali per il futuro dell’Afghanistan, e dei talebani, per la tenuta dell’Emirato, sono finiti nel mirino dell’ISIS. Secondo cui i talebani sono dei traditori. Concentrati solo sull’Afghanistan, invece che sulla jihad globale. Molti cinesi erano di base al Logan Hotel: che a dicembre, è stato distrutto da un attentato. Ma Li Xijing non si scompone. «L’Afghanistan vale il rischio», dice. E comunque, non è morto nessuno.

Sono rimasti tutti. Ma ora, con dipendenti afghani invece che cinesi. Yugio Gao è l’anima della Cina in Afghanistan, ma tecnicamente, non è che una cinese a Kabul: la sua società è del suo interprete. Vive qui dal 2015. In jeans e maglietta. E testa scoperta. Ha un ruolo che è difficile tradurre, ma è facile comprendere: olia ingranaggi. Si sta occupando della ferrovia Kabul-Pechino, adesso. E della ferrovia Trans-Afghana. Che andrà dall’Uzbekistan al Pakistan via Kabul, e unirà l’Asia Centrale al mare: per 5 miliardi di dollari. «Gli americani non hanno lasciato niente. Tutta questa pressione per le scuole: e spesso le scuole manco esistono. Non sono state chiuse: non sono mai state costruite», dice. «Distribuivano denaro e basta. Niente infrastrutture. Né formazione. Né regolamentazione. Ma non c’è economia senza istituzioni. Mi hanno chiesto degli smeraldi ora: ma non so come certificarli, né come trasportarli. E così, non resta che il contrabbando. Che significa niente tasse, e niente bilancio: niente governo. E noi non siamo qui per governare», dice. «Siamo qui per cooperare. Perché il mondo funziona meglio, se è un mondo in cui tutti hanno da guadagnarci».

«Degli aiuti americani, due terzi sono tornati al mittente sotto forma di profitti per imprese americane», dice. «Era solo una girandola di dollari».

Quando gli americani sono arrivati, nel 2001, era alla fame un afghano su tre. Quando si sono ritirati, un afghano su due. E ora, secondo l’ONU il 97 percento della popolazione è in povertà. Ora, è alla fame un afghano su uno.

E quindi, l’altra cosa di cui Yugio Gao si sta occupando sono le sanzioni: come bypassarle. Con scambi in natura, essenzialmente. Molto contante. E sempre più, con triangolazioni con Dubai, e soprattutto, Mosca: è il nuovo ordine internazionale all’ombra dell’Ucraina. «Per la Cina, l’Afghanistan è molto più che miniere: è la via più breve per l’Europa», dice. Per questo, dice, il suo valore va molto oltre il suo litio. «Un anno, due, quattro: ma prima o poi proverete a fermarci, boicottando il Made in China. E a quel punto, faremo tappa qui. Impacchetteremo tutto di nuovo. E scriveremo: Made in Afghanistan». «E così, magari, in solidarietà agli afghani, sarà anche tutto esentasse», dice.

Il piano interrato, intanto, è in ristrutturazione: per gli altri imprenditori in arrivo. «E dubito che avremo la concorrenza di imprenditori europei», dice. «Non avete più iniziativa, ormai. Non rischiate un centesimo. Andate solo al traino dei governi, delle agenzie dell’ONU. Degli eserciti. Non create imprese: aspettate appalti».

Entra uno dei nuovi imprenditori. Uno specialista di energia solare. Considera che in genere in Afghanistan non c’è elettricità, gli dice un altro. «Per quante ore al giorno?», chiede. No. Manca proprio la rete. Mi guarda. Dice: «Ho trovato l’America».

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