il regno dei talebani
Quelle donne sottoterra
Mazar-i-Sharif, viaggio nelle aziende segrete dell’Afghanistan
Dietro il secondo cancello in ferro, non c’è che una scala stretta e ripida, e un po’ scalcinata. E da giù, arriva un suono metallico come di acqua che gocciola. Come di tubi. Ma non sono tubi. Sono Singer. Scosti una tenda rossa: e trovi sei sarte. Trovi una delle aziende segrete dell’Afghanistan.
Quando i talebani sono tornati al potere, Najma Abeel ha chiuso il suo atelier nel centro di Mazar-i-Sharif, e si è trasferita qui: nello scantinato di un anonimo condominio di periferia. Ha iniziato dieci anni fa, con cento dollari, e oggi ha sedici dipendenti. E i suoi abiti sofisticati sono ancora molto richiesti. «Invece che nel mio atelier, e a Kabul, vendo online. Vendo su Instagram. Ma non è la stessa cosa. Non è così facile», dice. Stare sul web implica competenze di marketing che non ha. E tempo, risorse. Ha perso metà del fatturato. «Si parla tanto delle afghane, di solidarietà, ma poi, in concreto, l’unico aiuto è un visto Schengen per andare via. E che aiuto è? Qui mi sono creata un mio spazio. Cosa farei, in Europa? Abiti afghani che nessuno vorrebbe?», dice. «Verrò: ma da stilista. Non da rifugiata».
Mazar-i-Sharif ha l’aria di sempre. Il suo nome significa «Santuario dell’Illustre», più o meno, perché la sua Moschea Blu si dice sia la tomba di Ali, il fondatore dell’Islam sciita: ed è un via vai di pellegrini, tutto il giorno. Tutti i giorni. Solo dopo un po’ noti che per strada, sono tutti uomini. Ma le afghane non sono a casa: sono sottoterra. Negli scantinati, nei sottoscala. In fondo ai cortili, nel retro di un ufficio. Dietro doppie, triple porte. Finte pareti. Islamic Relief, una ONG inglese, ha finanziato 400 imprenditrici con mille dollari l’una. Abbastanza per ricomprare stoffe, telai, concimi, per riadattare uno spiazzo di erba a orto, un magazzino a oreficeria: e ripartire - invece che partire.
Ma in realtà, non è solo questione di talebani. «A leggere la stampa internazionale, il problema qui è il burqa. Ma onestamente, ho l’hijab e basta. Come prima. Come tutte. E se sei in jeans, non è che ti fermano. Il mio primo problema sono le sanzioni», dice Mahbouba Zamani, figlia, nipote e pronipote di tessitori di tappeti. Si è specializzata in Iran, e ha clienti in mezzo mondo. «Ora che tutta l’attenzione è per l’Ucraina, nessuno neppure sa delle sanzioni. Ma il sistema bancario è bloccato. E per me che esporto tutto, è un disastro». Ha traslocato in un seminterrato: ma i suoi sono tappeti da centinaia di dollari al metro quadro. La lana viene colorata con estratti di foglie e fiori, come una volta, per avere tonalità uniche. Per tappeti così, ci vogliono mesi di lavoro. E anni di esperienza. «Pensate all’Afghanistan: e pensate al microcredito per quelli che vendono sciarpe e ciondoli ai diplomatici in visita. Ma le aziende che generano sviluppo e ricchezza sono queste. Aziende vere», dice. «E invece, ora perdo tutto il mio tempo a ingegnarmi per bypassare le sanzioni».
Come Nazia Hidari, un’altra che ha cominciato con cento dollari: e ricominciato con Islamic Relief. Ha sessanta dipendenti. E un socio in Canada. Le sue stoffe sono destinate in larga parte al mercato estero. «L’altro problema, è ovvio, è questo obbligo ora di viaggiare con un mahram. Con un uomo. Soprattutto per il mercato interno: perché è un obbligo oltre i 70 chilometri, e quindi mi è complicato incontrare i clienti, mostrare i campionari. Ma con il sistema bancario bloccato, mi è tutto complicato anche a meno di 70 chilometri», dice. Tra l’altro, dice, alla fine usi il contante, usi l’hawala. O anche il baratto. Cioè, alla fine, bypassi le barriere: ma attraverso mille intermediari che ti erodono il guadagno. «E il danno è per tutti. Per noi, ma anche per la comunità internazionale. Perché le sanzioni o sono rigorose o sono inefficaci», dice. «Non ha senso».
In effetti, non solo le sanzioni non sono a tenuta stagna. Ma arrivano anche aiuti: per il 2023, l’ONU ha chiesto 4,6 miliardi di dollari. La cifra più alta mai chiesta per un Paese. In teoria, anche questo progetto di Islamic Relief non dovrebbe esistere. Perché è consentito solo l’aiuto umanitario, cibo, coperte, medicine, cose così: non l’aiuto allo sviluppo. Per non consolidare i talebani. Ma è quello che è più utile: e esiste. E a spiegarmi tutto è un’economista che si chiama Fereshta Yusufi. Ma le afghane non dovrebbero stare a casa? I talebani hanno vietato alle ONG di avere staff femminile, tranne che per progetti di istruzione e salute. E allora? «Vengo in ufficio comunque».
Mazar-i-Sharif è contraddittoria. Come tutto l’Afghanistan. Con i suoi 500mila abitanti, è una delle cinque maggiori città. La sua università è aperta solo agli studenti, ora, e così i parchi, aperti solo agli uomini. E le palestre. Ma se il bowling, che era il ritrovo per le serate tra amiche, è chiuso, e così molti dei caffè frequentati da musicisti, artisti, scrittori, attivisti, una palestra ha già riaperto alle sue iscritte, e anche alcune scuole, il Rabia Balkhi, una sorta di centro commerciale tutto al femminile, ha ancora le serrande alzate, e in periferia, alcune girano tranquille in bici. Molte sono in nero fino alle caviglie. Altre no. Con i mille dollari di Islamic Relief, Laila Alizada, un’altra che ha cominciato con cento dollari, e oggi tra i suoi dipendenti ha tutti i maschi di famiglia, ha cambiato il sistema di irrigazione delle serre in cui coltiva verdure. Più visibile di così.
Un conto sono scuole e università, su cui i decreti dei talebani sono chiari: un conto è tutto il resto. «Ma perché le nuove norme non si capisce mai se sono obblighi o raccomandazioni», dice Najiba Mateen, che ha trasformato in cucina il ripostiglio di un’agenzia di assicurazioni, e dietro un pannello di plexiglass, gestisce uno dei take away più rinomati, con nove cuoche e un menù lungo quattro pagine. Solo che a differenza di un normale take away, invece dei controlli dei NAS ha quelli della Polizia del Vizio e della Virtù. «I talebani un giorno sono venuti, e mi hanno detto di chiudere. Ma tecnicamente, non hanno mai proibito alle afghane di lavorare. Hanno detto di stare a casa, se non strettamente necessario. E se non lavoro, come campo? E quindi ho risposto che per me campare è strettamente necessario». E come è andata? dico. «Sono tra i miei migliori clienti».
Sono tra i migliori clienti anche di Bibi Munira, che nel suo nuovo pastificio all’interno di un parcheggio ha affisso tanto di insegna. «Spostarmi qui è stato un passo avanti. Non indietro. Prima, ognuna lavorava a casa propria. Perché ora è facile dimenticarlo: ma in Afghanistan si sparava a ogni angolo», dice. E in effetti, colpisce: molti girano con Google Maps, qui. Come se non fossero mai stati dove sono nati. «La verità è che con gli americani, larga parte del Paese ha avuto solo guerra e miseria. Ed è da lì che arrivano i talebani. Non hanno mai avuto niente. Non hanno mai avuto una vita. Si abitueranno: è solo questione di tempo», dice. Di tempo e prospettiva. «Possiamo vederla come uomini e donne, talebani e non talebani: ma anche come madri e figli. Padri e figlie. Fratelli e sorelle. E parlarci». Anche perché prova a parlare con l’ONU. Se sei un afghano comune. Prova, dice. «Con i talebani, non è facile: ma la porta è aperta. All’ONU stanno barricati dietro muri alti sei metri».
Secondo me, molti dei divieti sono più tattica che ideologia, dice - dicendo quello che ti dicono tanti, qui. E tante. Perché al mondo non interessa altro, dice. Solo le donne. E quindi, per i talebani non c’è altra leva contro le sanzioni. Che sono la priorità assoluta, dice: perché il 97% degli afghani ora è alla fame. E il primo dei diritti, è il diritto a restare vivi. «Poi, certo che voglio le scuole aperte. Come tutti. Non siamo pedine. Non siamo una carta da poker», dice. «Ma questo vale per entrambi», dice. «Anche per voi».