Punti di vista

Acciaierie d’Italia, «Finale di partita» all'ombra di Beckett

Giuse Alemanno

Ogni giorno, ogni ora, ogni momento, quella fabbrica, così com’è, è un’arma a cui è stata tolta ogni sicura

Non portasse con sé un cumulo straziante di dolori e contraddizioni, nella fine dell’ex Ilva è riscontrabile una plastica imitazione scadente di ciò che quella fabbrica avrebbe dovuto essere e non è stata; oppure la versione burlesca e caricaturale della conclusione di una grande realtà industriale. Una parodia assurda: l’unico senso percepibile è quello di esserne priva. Non basta la penna di un umile narratore di provincia a scriverne, servirebbe uno come Samuel Beckett. Nel suo «Finale di partita» c’è tutta l’incongruità insita nell’epilogo dell’acciaieria sullo Jonio. Sembra di sentire Hamm, cieco e su una sedia a rotelle: «La fine è nel principio e pure si continua». C’è tutto l’apparato necessario alla fine dell’Ilva nell’atto unico del drammaturgo irlandese: inutilità, precarietà, fallimento, illogicità, libertà individuale limitata. E gli operai? Basta il frammento di un dialogo tra Hamm e Clov, il servitore che non può sedersi mai, per fotografarli:

- Hamm: «Non può darsi che noi … che noi … si abbia un significato?».

- Clov: «Un significato! Noi un significato! Ah, questa è buona!».

Operai che tutto hanno subito per un salario senza alternative: inconsequenzialità delle direttive, frammentazione del comune sentire operaio, decomposizione dello stabilimento. I vari gruppi dirigenti che si sono avvicendati hanno dato corpo a quello che Theodor W. Adorno scriveva dell’opera di Beckett: «la costruzione dell’insensato». Tutto per continuare a produrre sempre, solo e soltanto secondo il «modello Ilva»: fuori dalle regole per fottere il mercato. Nell’arroganza e nella presunzione che quel modello produttivo non dovesse fermarsi mai, alla faccia delle sentenze, delle malattie, dei morti e dell’inappellabilità dei dati scientifici. Indifferenti alla fatiscenza di strutture a cui, con pervicace noncuranza, si rimandano manutenzioni. Gli operai dell’Ilva sono costantemente esposti a rischi gravissimi. Ogni giorno, ogni ora, ogni momento. Quella fabbrica, così com’è, è un’arma a cui è stata tolta ogni sicura. Non è bastato il dolore che quello stabilimento ha procurato? Per chi? Per cosa? Per denaro? Per potere? Per continuità? Per la Nazione? Per la vanità di una casta disonorata di industriali squallidi che considera ‘altro’ e ‘a perdere’ chiunque, tarantini compresi?

Il tempo è finito. Per tutti. Per tutto. L’orologio marcatempo dell’Ilva si è rotto, infranto, fracassato. Tornano, così, le parole definitive di Beckett, nel suo profetico «Finale di partita»:

- Hamm: «Che ora è?».

- Clov: «La stessa di sempre».

Sipario.

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