Parole, parole e parole

La Sicilia, il sudario e quel sorriso d’ignoto

Rosario Coluccia

Alcune settimane fa ero in Sicilia, terra affascinante per storia e bellezza. Per la prima volta nell’Agrigentino, mi spostavo in macchina su strade piccole e piene di curve, dove viaggiatori spericolati guidavano velocemente

Alcune settimane fa ero in Sicilia, terra affascinante per storia e bellezza. Per la prima volta nell’Agrigentino, mi spostavo in macchina su strade piccole e piene di curve, dove viaggiatori spericolati guidavano velocemente. Io, con andatura assai più lenta, visitavo i luoghi devastati dal terremoto che la notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 colpì la Valle del Belice, con epicentro tra Gibellina, Salaparuta e Poggioreale. Il bilancio fu terribile: 352 morti, più di 600 feriti e decine di migliaia di senzatetto, intere città rase al suolo, danni ingenti al patrimonio edilizio. Non sono il turista che ama curiosare sulle disgrazie collettive; ora, a distanza di quasi sessant’anni, volevo constatare lo stato della ricostruzione che dovrebbe essere il primo obiettivo di uno stato solidale. E invece, un disastro.

Il governo dell’epoca favorì l’esodo delle popolazioni terremotate, in vari modi e per qualunque destinazione. La scelta aggravò il già notevole fenomeno dello spopolamento, quelle zone subirono un ulteriore esodo di circa 30.000 persone. Con l’abbandono delle terre e delle attività tradizionali, la ricostruzione non fu più sentita come urgente, gli interventi andarono a rilento, spesso furono solo avviati e mai completati, vero monumento all’inefficienza e al malaffare. Del vecchio centro abitato di Salaparuta rimane un ammasso di rovine tra cui emergono ruderi di case, la base della torre quadrata del castello dei Paruta, la parte bassa dei muri perimetrali della Chiesa Madre. Dopo una curva, una scritta a caratteri cubitali avverte che ci si trova davanti alle rovine di Salaparuta, come se il viaggiatore avesse bisogno di questa precisazione inutile: i resti parlano da soli, implacabili.

A Gibellina un artista come Alberto Burri fermò la memoria del disastro dando vita alla più grande opera di Land Art al mondo. Siamo abituati alle opere di Christo, ai suoi «impaccaggi» di celebri edifici pubblici e di scenari naturali, anche con installazioni provvisorie. Il Cretto realizzato da Burri a Gibellina è un sudario di cemento bianco che ricopre le vie della città distrutta, lasciandone inalterata la pianta originaria. Sotto questo enorme dedalo solido ci sono i resti delle case, lì abitarono e morirono decine di persone. Impressionante.

La visita al Museo Abatellis di Palermo è una tappa imperdibile per chiunque si fermi, anche per poche ore, nella magnifica capitale siciliana. Palazzo Abatellis è un antico palazzo nobiliare situato nell’antico quartiere della Kalsa, che risale al periodo della dominazione araba (il nome deriva dall’arabo al khalisa «l’eletta» perché al suo interno c’era la cittadella fortificata dell’emiro e la sede della sua corte). Nella Kalsa nacquero e vissero i loro anni giovanili Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Nel Museo Abatellis c’è lo splendido affresco del Trionfo della Morte di ignoto, realizzato nel XV secolo: in un lussureggiante giardino incantato, dove la gente giovane e ricca si diverte con cacce e balli, irrompe la Morte su uno spettrale cavallo scheletrito.

Essa inizia a lanciare con l’arco frecce letali. A destra si trova il gruppo degli aristocratici, sorpresi dall’avvenimento, che quasi imperterriti continuano le loro attività; sotto il corpo del cavallo della Morte giacciono i potenti, tra cui il Papa, l’imperatore e un gruppo di morti. Affascina l’Annunziata di Antonello da Messina, del 1473, colta nell’attimo in cui l’angelo annunziatore (che non è raffigurato) le rivolge le frasi a tutti note; la mano destra della Vergine sembra voler frenare l’angelo: improvvisa e troppo grande, al momento, la novità dell’annunzio.

Pittore mirabile, Antonello da Messina. L’effigiato del suo Ritratto d’ignoto, datato tra il 1465 e il 1476 e conservato nel «Museo Mandralisca» di Cefalù, regala al visitatore un sorriso di qualità probabilmente più eccelsa rispetto a quello famosissimo della Giocondadi Leonardo, alla quale ogni giorno al Louvre migliaia di visitatori dedicano uno sguardo frettoloso e contingentato nei tempi, mentre scattano la foto di rito. Reca in copertina la riproduzione del Ritratto d’ignoto l’edizione einaudiana del 1976 di uno splendido romanzo di Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinario. Il romanzo narra la rivolta contadina di Alcara Li Fusi, infiammata dallo sbarco dei Mille, e la tragedia della violenza degli oppressi contro i «civili», loro tradizionali oppressori. Fatti che è difficile giudicare con parametri condivisi: per alcuni sacrosanto tentativo di abbattere il dispotismo, per altri eccidio e saccheggio senza giustificazione politica. Di fronte ad essi, la risposta è nel sorriso che aleggia sul volto del Ritratto d’ignoto: «un sorriso ironico, pungente e nello stesso tempo amaro».

Sensibile ai movimenti dell’italiano, Consolo forgia un suo autonomo strumento linguistico: «la mia sperimentazione […] non andava verso la verghiana irradiazione dialettale del codice toscano né verso la digressione dialettale di Pasolini o la degradazione polifonica di Gadda, ma verso un impasto linguistico o una “plurivocità” […] che mi permetteva di non adottare un codice linguistico imposto», mescolando il dialetto siciliano, a volte integrale e a volte italianizzato, e l’italiano farcito di strutture e di parole siciliane.

Il Cretto di Burri, il busto del Museo Abatellis e i dipinti, il romanzo di Consolo: facce diverse di un unico prisma, permettono a chi non è distratto di accostarsi, almeno per pochi istanti, all’enigma struggente che ha nome Sicilia.

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