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Il turpiloquio, oggi così caro ai politici
Non voglio parlare della frase, millanta volte ritrasmessa dai media, con cui la Presidente del Consiglio dei Ministri si rivolge al Presidente della Regione Campania in una situazione ufficiale
«Sono quella stronza della Meloni, come sta?». Non voglio parlare della frase, millanta volte ritrasmessa dai media, con cui la Presidente del Consiglio dei Ministri si rivolge al Presidente della Regione Campania in una situazione ufficiale, nella quale autorità statali e regionali inaugurano un centro sportivo a Caivano, località dominata dalla camorra, teatro di efferatezze e di stupri su bambine dodicenni. Me ne servo per sottolineare quanto sia frequente, nel linguaggio usato da esponenti politici di primo piano e di diverso schieramento, il ricorso al turpiloquio, spesso accompagnato da messaggi denigratori e intolleranti. Segno dei tempi, potremmo banalmente concludere, con una nota di sconsolata deprecazione.
Invece non è così semplice. Il linguaggio della politica, istituzionalizzato e variamente legittimato fin dai tempi più antichi, si avvale di elaborate strategie finalizzate, a seconda dei momenti e dei protagonisti, a convincere razionalmente e a persuadere emotivamente; tecniche accorte, che hanno lo scopo di favorire l’adesione dei cittadini alle proprie tesi, a un certo progetto, a uno specifico programma. I cittadini sono destinatari di messaggi ben studiati, dove formule a effetto e parole chiave vengono usate per stabilire legami fiduciari tra politico ed elettore, specialmente in occasione delle campagne elettorali. Forme di spettacolarizzazione e non messaggi razionali, come desidereremmo per una crescita consapevole della coscienza civile collettiva.
S’intitola La lingua della neopolitica. Come parlano i leader, un bel libro di Michele A. Cortelazzo appena uscito (maggio 2024) per Treccani Libri. Cortelazzo è professore emerito di Linguistica italiana all’università di Padova. Da anni, ogni quindici giorni, analizza su un sito un termine emergente della neopolitica. Neopolitica perché nel 2013 la vita politica italiana ha vissuto una vera e propria rivoluzione, quando nelle aule parlamentari è entrato un numero rilevante di eletti che avevano scarsissima esperienza specifica: si misuravano quindi con un mondo nuovo e per certi versi semisconosciuto. Le ripercussioni sul piano linguistico sono state enormi: la lingua un po’ forbita e ideologizzata (l’ideologia, correttamente vissuta, non è negativa) della cosiddetta Prima Repubblica entra in crisi già nel 1994, con l’avvento della Seconda Repubblica, che instaura un linguaggio più immediato e più vicino a quello dell’uso; poi, nel 2013, irrompe nella vita degli italiani il linguaggio dei social, spezzettato e con frasi brevi, che trascina con sé le consuetudini più deteriori del modo di comunicare tipico della rete. Sul palcoscenico del marketing politico la tecnologia determina le modalità della comunicazione, fondamentali per il successo e per l’insuccesso.
Il che non vuol dire che il politichese sia scomparso e che i cittadini capiscano appieno le espressioni usate in politica: «democrazia negoziale», «giustizia climatica», «sforzo produttivo», «cambio di passo» sono formule adottate trasversalmente da esponenti di diversa collocazione politica, ripetute e amplificate dai media. E tuttavia, pur ricorrenti, non suonano familiari al parlante comune, fanno parte di un lessico specialistico percepito con difficoltà. Considerazioni differenti possiamo fare per i modi di dire e per le frasi fatte, gli uni e le altre di larghissimo consumo. Il ricorso a un lessico preconfezionato permette di rilanciare senza sforzi di inventiva dichiarazioni identiche in situazioni diversissime, utilizzando espressioni a tutti note che fingono di mettere il politico allo stesso livello del cittadino comune: parlo come te, siamo uguali, non godo di privilegi particolari. Rispetto a «metterci la faccia», «mettere a terra», spetta forse a «mettere le mani nelle tasche dei contribuenti» il record delle espressioni fruste e inflazionate, che molti ripetono a cuor leggero, quando si discute di tasse. Senza distinguere tra tributi correttamente versati dai cittadini onesti in misura proporzionale al proprio reddito (come vuole la Costituzione) e tributi illecitamente non versati dagli evasori, che danneggiano chi si comporta in maniera corretta.
Un segno lampante dei tempi mutati è la caduta in disuso della denominazione «partito», largamente maggioritaria nella Prima Repubblica: prevalgono invece scelte centrate su parole o espressioni che indicano una qualifica o un atteggiamento degli aderenti, spesso inserendovi il nome «Italia», elemento catalizzatore polifunzionale, valido per ogni stagione. A questo modello di etichette linguistiche si accompagna una spiccata personalizzazione dei simboli, in cui campeggiano i nomi dei leader, perfino di chi è scomparso ma si ritiene che possa continuare a esercitare influenza sull’elettorato. Nei discorsi e nelle dichiarazioni l’uso, ossessivamente autocelebrativo, del pronome io contribuisce a rappresentare il leader come una sorta di capo guerriero salvatore, che si impegna personalmente per il bene degli elettori e, investito di una simile missione, si permette il dileggio degli avversari, visti come nemici personali che non meritano rispetto. I messaggi mirano a creare e mantenere un rapporto fiduciario con chi vota, inneggiano alla condivisione degli stessi ideali e alla comune identità originaria: potere delle parole prive di contenuti e seduzione incomparabile che esse esercitano. Nonostante tutto, non sono pessimista. Per Aristotile la politica è arte suprema che risponde ai bisogni naturali dell’individuo. Se tornerà ad essere tale, le forme del linguaggio politico esprimeranno questi valori.