Parole, parole e parole

Per il titolo di studio basta (troppo) poco

Rosario Coluccia

È prioritario l’obiettivo di elevare la qualità dell’insegnamento nella scuola. È importante individuare le cause del problema

La scorsa settimana abbiamo parlato di un vero e proprio «declino dell’italiano» nella scuola. E dei riflessi che tale declino. Un cittadino che si esprime maldestramente non è in grado di far valere i propri diritti. E, parallelamente, se ha difficoltà a comprendere appieno quello che legge o quello che ascolta, non riesce a farsi un’idea personale e libera del mondo che lo circonda.

Letto l’articolo molti mi hanno scritto. Soprattutto docenti, mossi da interesse verso la scuola e da passione per la lingua italiana. Tutto ciò rincuora. Sono loro, i professori che giorno per giorno si misurano con le difficoltà provocate dal cattivo uso dell’italiano da parte degli studenti, nell’oralità e nella scrittura, latori di riflessioni e di proposte che dovrebbero essere ascoltati da chi ha il potere di decidere. Ecco un rapido sunto delle argomentazioni espresse da chi mi scrive.

È prioritario l’obiettivo di elevare la qualità dell’insegnamento nella scuola. È importante individuare le cause del problema. Mirando a non farsi fuorviare dai proclami verbali di chi dirà che è ora di rimettere al centro l’italiano, per poi indirizzare il sistema fuori strada. La concorrenza impropria fra le scuole punta ad attirare il maggior numero possibile di studenti, perché senza studenti le scuole perdono classi e magari chiudono. Se folte schiere di studenti di un biennio superiore non distinguono un predicato da un sostantivo, il difetto non può risolversi evocando, genericamente, un cambio nella metodologia d’insegnamento. Semmai, andrà chiamato in causa il pressapochismo di una politica scolastica distratta.

Inseguendo una confusa e contraddittoria idea di uguaglianza, la scuola ha accettato il principio della distribuzione del «pezzo di carta» a tutti, vuoto e puramente nominale, dal peso specifico nullo o quasi, frutto di un continuo gioco al ribasso. È diffusissimo il perverso meccanismo delle «bocciature bianche»: ci si limita a promuovere nella classe successiva, quindi a licenziare e diplomare, indipendentemente dai reali livelli di competenze raggiunti. I ricchi, i cui figli continueranno a studiare negli istituti privati ad elevati standard di preparazione (meglio se all’estero), ringraziano. In Italia una laurea non si nega a nessuno: ciò è un bene, sia chiaro, perché presuppone una visione sociale democratica ed egualitaria. Ma la scuola cosiddetta di massa ha abdicato al compito di distinguere e selezionare. Ha eletto a sistema il principio antimeritocratico del tutto a tutti, in antitesi con la società reale e con quella del lavoro. Come inevitabile risultato, ha contribuito a sfumare tutto in un indistinto amorfo, ove l’alto e il basso, il buono e il cattivo si confondono e su tutto prevale la mediocrità, metro di misura della società, a cascata della scuola e della cultura contemporanea.

Ed ecco ora il problema forse più drammatico: i ragazzi delle classi sociali medio-basse (generazione tradita nelle speranze e nelle ambizioni) non credono che la cultura serva a migliorare, a facilitare la ricerca di un buon posto di lavoro. Rifiutano la meritocrazia, non credono nella possibilità che un titolo di studio possa fare la differenza. La generazione degli anni cinquanta-settanta del Novecento era figlia degli operai e dei contadini che vedevano il riscatto sociale nella possibilità di mandare il proprio figlio a scuola, facendolo diventare addirittura dottore! L’ascensore sociale ha funzionato, almeno in parte, nella seconda metà del Novecento. All’uscita dalla seconda guerra l’Italia era un paese fondamentalmente contadino, con una grande percentuale di analfabeti o semianalfabeti, pochi diplomati, pochissimi laureati. Lungimiranti strategie economiche della prima classe dirigente del secondo dopoguerra e accorte politiche scolastiche hanno aumentato il benessere dei ceti più poveri (il “miracolo economico” che nessuno ricorda più) e diffuso l’istruzione in ceti dove non era mai arrivata. I poveri hanno capito che, studiando e impegnandosi, potevano migliorare le proprie posizioni. Una mutazione radicale, mai prima conosciuta dall’Italia, in tutta la sua storia. Oggi la fame di riscatto, il fuoco che muoveva l’ambizione di fare meglio non è più della maggior parte degli studenti.

Mi viene in mente un articolo di Ilvo Diamanti di qualche anno fa. Ferocemente ironico. S’intitolava «Ragazzi non studiate». «Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico».

E invece no. Ragazzi, studiate, non arrendetevi. Accanto a voi ci sono, nella scuola, docenti animati da passione, professionalità e competenza, capaci di interessare e di coinvolgere. Questo può fare la differenza.

Privacy Policy Cookie Policy