Parole, parole, parole

Scrivere e leggere male: il disastro è già tra noi

Rosario Coluccia

Lo denunciano i maestri delle elementari, si lamentano i professori della scuola secondaria inferiore e superiore, la situazione non migliora all’università

Lo denunciano i maestri delle elementari, si lamentano i professori della scuola secondaria inferiore e superiore, la situazione non migliora all’università. Alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Dopo molti anni di scuola le carenze linguistiche degli studenti (grammatica, sintassi, lessico) sono evidenti, con errori che non tollereremmo in terza elementare. Non possiamo chiudere ancora gli occhi. Dobbiamo porci come obbiettivo urgente il raggiungimento di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti.

È un fatto, gli studenti non conoscono l’italiano in maniera soddisfacente. Il parco dei vocaboli da loro posseduti è ridotto; risulta ignoto il significato di parole mediamente colte come contrito, dirimere, emaciato, fandonia, fronzolo, improntitudine, stantio. Perfino nelle tesi di laurea universitarie si fanno errori. E anche oltre, molto spesso. Al proposito mi permetto di raccontare un episodio recente, non inventato. Un’università che non è corretto nominare mi ha chiesto di giudicare una tesi di dottorato di ricerca. Il lavoro che dovevo giudicare non era perfetto, c’erano errori e imperfezioni. Alla fine ho dato un giudizio positivo, nonostante qualche difetto. Aveva un pregio, che ho voluto sottolineare: «La tesi è scritta in buon italiano». Questa considerazione è banale e l’uso di un buon italiano in una tesi di dottorato dovrebbe essere scontato. Ma tale non è, considerati i tempi.

È tempo di agire: se lasciassimo tutto come è oggi, dovremmo concludere che gli investimenti statali per l’istruzione pubblica e obbligatoria rappresentano uno spreco, un danno per tutti. Pasolini voleva eliminare l’istruzione obbligatoria, ma lo diceva in una prospettiva particolare. E invece a ogni cittadino vanno garantiti i requisiti linguistici minimi: ciascun italiano deve essere in condizione di padroneggiare la grammatica della propria lingua, di conoscerne l’ortografia e non fare errori nello scritto, di comprendere a fondo il significato di un testo di media difficoltà (come un articolo di giornale). La conoscenza adeguata della lingua italiana è la premessa per un accostamento proficuo a ogni sapere.

È una vera questione nazionale, è giusto che sia percepita dall’opinione pubblica. Il problema va oltre la scuola. Usciti dal ciclo dell’istruzione con carenze linguistiche vistose, gli adulti regrediscono se non allenano in maniera adeguata le proprie capacità. Vale per il cervello quanto vale per il corpo, bisogna averne cura. In età adulta si deteriorano le competenze acquisite a scuola, è il fenomeno che definiamo «analfabetismo di ritorno». Negli anni di liceo abbiamo acquisito nozioni non elementari di matematica ma, se non le esercitiamo, la nostra matematica adulta si rattrappisce e, se va bene, torna ai livelli della terza media. Così avviene in qualsiasi campo.

Esistono colpe individuabili, a chi o a cosa attribuire tutto ciò? Non c’è un capro espiatorio, anche se non è incoraggiante un episodio recentissimo. Il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, è intervenuto con un post per parlare della scuola chiusa per la fine del Ramadan, affermando che la maggioranza degli alunni nelle classi dovrebbe essere italiana. Il post del ministro è sconnesso sintatticamente, nello stesso periodo i verbi ricorrono insieme al futuro e al congiuntivo: «Se si è d’accordo che gli stranieri si assimilino sui valori fondamentali iscritti nella Costituzione ciò avverrà più facilmente se nelle classi la maggioranza sarà di italiani […], se nelle scuole si insegni approfonditamente la storia, la letteratura, l’arte, la musica italiana». Il Ministro sollecita, giustamente, il possesso dell’italiano e poi dimostra di non saperlo usare lui stesso. Fin troppo facile l’ironia.

Ma noi siamo seri e ci fermiamo, Ci risparmiamo le litanie sui politici insufficienti, sui professori a volte demotivati, sui ragazzi incapaci di andare oltre il digitale, sulle famiglie che pretendono volti alti per i pargoletti neghittosi, sulla concorrenza impropria tra le scuole che attraggono gli studenti offrendo non contenuti seri ma svaghi e attività extra, sugli istituti parificati che (salvo poche eccezioni) regalano a pagamento promozioni facili e recupero di anni persi. Tutto ciò esiste, ma non basta fare l’elenco delle insufficienze per acquietare la coscienza.

Bisogna agire, va elevata l’asticella della formazione. Possiamo farlo. I nostri progenitori hanno creato umanesimo e rinascimento, fino a pochi decenni fa avevamo un’ottima scuola primaria e un liceo classico eccellente, ancora oggi molti laureati delle bistrattate nostre università vanno all’estero e lì si affermano. La domanda è: chi vincerà la sfida del futuro, la facilitazione o la difficoltà ragionata? Di fronte al disastro che pochi negano, siamo sicuri che distribuendo voti generosi a chi non li merita rendiamo un buon servigio alla società (e perfino agli stessi beneficati)? Non esistono azioni più efficaci? Servono metodi intelligenti (e più faticosi) di insegnamento e verifiche continue, a scuola e all’università. Studenti e professori saranno incentivati a fare meglio, i ragazzi si abitueranno ad affrontare le future e più dure prove della vita. Sui modi e sulle strategie si può discutere, le opinioni sono diverse. Ma è importante esser d’accordo sull’obiettivo di fondo: studio serio, aggiornamento e valutazione sono irrinunciabili. Non possiamo far finta di niente.

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