il ricordo
Ezio Bosso, la potenza della musica accompagnata dal sorriso
Il pianista e compositore torinese morto a 48 anni: una passione contagiosa che ha sfidato la malattia
È morto Ezio Bosso. Il pianista, compositore e direttore d’orchestra aveva 48 anni. Nato a Torino il 13 settembre 1971, viveva da tempo a Bologna. Nel 2011 fu operato per un tumore al cervello e dopo gli fu diagnosticata una malattia neurodegenerativa. La sua musica è stata commissionata e utilizzata da importanti istituzioni operistiche, come la Wiener Staatsoper, la Royal Opera House, il New York City Ballet, il Teatro Bolshoij di Mosca.
Lo ricorderemo innanzitutto per il sorriso, quel sorriso disarmante col quale comunicava il suo amore per la musica grazie al quale era rimasto tenacemente attaccato alla vita, sfidando il male che lo consumava e che lo ha portato via a soli quarantotto anni. Ed era lo stesso sorriso col quale lui, Ezio Bosso, disarmava tanto i suoi numerosissimi fan, quanto i suoi detrattori, quei colleghi roisiconi che, specie dal versante accademico, ironizzavano maldestramente sulla sua musica e sulle sue capacità pianistiche, fingendo di non capire che la malattia gli impediva di fare sfoggio di tecnica trascendentale e che, di conseguenza, i brani che in concerto eseguiva al pianoforte - suoi o di altri non importa - erano pensati e scelti in funzione di ciò che le sue mani riuscivano a fare: più Bach che Liszt, per intenderci, ma in ogni caso pagine illuminate da una musicalità gioiosa, dalla capacità unica di inabissarsi negli anfratti più reconditi dell’Io per poi riemegerne rigenerato.
Ed era proprio questa sua comunicativa diretta e mai spocchiosa, ma piuttosto dagli entusiasmi quasi infantili che gli aveva aperto i cuori del pubblico sin da quando, nel 2015, Carlo Conti lo aveva fatto conoscere al grande pubblico televisivo. In quella bagarre spesso pacchiana che è il Festival di Sanremo, Bosso era apparso, spaesato, quasi impaurito, certamente commosso. E il suo esprimersi in modo incerto, faticoso, ma sempre sorretto da un trasporto fuori dal comune, si era rivelato il preludio migliore a quella breve esecuzione pianistica che in un attimo aveva spazzato via canzoni, gossip, rincorse dello share e quant’altro.
«La musica - era solito ripetere - ci insegna ad ascoltare», ponendo l’accento su un aspetto sin troppo trascurato in questa epoca fatta di urla e di autoreferenziali sovraesposizioni mediatiche. E proprio sull’ascolto, su quegli entusiasmi che solo l’arte dei suoni sa suscitare stuzzicando corde ben lontane dalla nostra razionalità, aveva basato le sue «lezioni» televisive dedicate prima alle Sinfonie di Beethoven (la Quinta e la Settima) nel seguitissimo Che storia è la musica e poi, dopo qualche mese, a Tchaikowsky e Mozart.
Era nato a Torino Ezio Bosso, in una famiglia tutt’altro che agiata e sin da ragazzino aveva imparato a confrontarsi con i pregiudizi: da quello che voleva il figlio di un’operaio «condannato» a seguire il destino del padre, a tutto ciò che invece gravitava intorno alla malattia neurodegenerativa che lo aveva costretto prima a muoversi su una carrozzella, facendo impiego di tutori alle gambe e alle braccia e poi persino ad abbandonare l’amato pianoforte per la meno faticosa direzione d’orchestra.
Ma in mezzo a questi marosi della vita, le soddisfazioni non gli erano mancate: lui, contrabbassista, pianista e compositore, passato dal rock degli Statuto a una sorta di musica classica contemporanea, era stato preso a ben volere nientemeno che dal grande Claudio Abbado che morendo gli aveva affidato il testimone della bolognese Associazione Mozart. I suoi concerti degli ultimi anni erano sempre degli eventi e accanto ai recital pianistici, non gli era mancata la soddisfazione di esibirsi come direttore alla Fenice di Venezia e al Comunale di Bologna prima di fondare un proprio ensemble, la StradivariFestival Chamber Orchestra, poi rinominata Europe Philarmonic. E poi le colonne sonore (sua quella del Ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores), le registrazioni, fra le quali non si può fare a meno di ricordare The 12th Room, l’album a lui più caro nel quale aveva idealmente tracciato in musica il percorso della nostra esistenza suddividendolo appunto in dodici stanze e immaginando che solo una volta giunti all’ultima si potesse cogliere il significato della prima e farvi idealmente ritorno.
Ci piace ricordarne le numerose presenze pugliesi a cominciare da quella che è forse la più lontana - almeno dalla celebrità - e che risale al 2005, quando il festival barese Time Zones lo ospitò con Samuel Beytelmann nel progetto Sentido Unico, poi replicato anche nel Salento. E ancora al Petruzzelli, prima come pianista per la Fondazione Valente, quindi come direttore d’orchestra con la Sinfonica metropolitana, in una serata organizzata in collaborazione con l’Ordine forense di Bari. E infine, solo un anno fa, in quella che era stata una vera e propria «residenza», promossa dal Teatro pubblico pugliese e dalla Apulia Film Commission: aveva diretto in concerto i solisti della Europe Philarmonic Orchestra al Teatro Giordano di Foggia e al Teatro Apollo di Lecce, tenendo anche sette prove d’orchestra narrate, su musiche di Mendelssohn, Schubert e Beethoven; ed era stato ospite al Cineporto della Fiera del Levante per un incontro col pubblico, mentre il suo recital nella cattedrale di Altamura, inserito nel programma del festival «Viandanti», aveva attirato tanti di quegli appassionati da costringere gli organizzatori ad allestire dei maxischermi in piazza. Suonò anche in Basilicata, nel 2016 alla Cava del Sole a Matera, quando durante il Festival Duni fu ospite dell’Ico della Magna Grecia.
Quando suonava, specie quando poteva ancora mettere le mani sul pianoforte, era difficile non restare colpiti dall’urgenza espressiva con cui passava da alcuni dei suoi autori prediletti, Bach, Chopin e John Cage alle proprie composizioni, nelle quali utilizzava un linguaggio forse semplice, ma mai banale e sapeva farsi energico sfidando eroicamente i suoi pur notevoli limiti fisici.
Il tumore che l’altra notte ha avuto la meglio su di lui però non lo ha sconfitto: semplicemente gli ha indicato la porta che da quella dodicesima stanza lo ha ricondotto direttamente nella prima. Perché le vite legate alla musica non finiscono mai.