L'iniziativa

Aliano e Tursi, il mondo è qui: il southworking per ripopolare i borghi

Massimo Brancati

Piccoli paesi, grandi idee per creare lavoro a distanza

Il riscatto di un’immagine per troppo tempo ancorata al sottosviluppo. Ad Aliano, cittadina nota per aver ospitato Carlo Levi, confinato in «questa sperduta terra del Sud» durante il periodo fascista, mette radici una grande multinazionale con testa olandese, la Randstad, che sta dimostrando come internet e lavoro sia un connubio vincente, capace di abbattere le distanze e rendere il mondo sempre più piccolo. Nel periodo della pandemia tutti hanno avuto familiarità con il termine «smart working». Ebbene, in questo caso siamo di fronte a un’evoluzione di quell’impostazione. Gli americani la chiamano «Southworking», letteralmente lavorando al Sud. Da un piccolo paese si può lavorare per una grande azienda che magari ha la sede a migliaia di chilometri. Basta un pc e una buona connessione. Il mondo imprenditoriale sta cogliendo questa opportunità anche perché non mancano incentivi. Per esempio, la fondazione con il Sud prevede un contributo di 60mila euro per quelle imprese che decidono di offrire posti di lavoro nel Mezzogiorno e, in particolare, in zone dove l’offerta scarseggia senza richiedere al dipendente di trasferirsi. Ad anticipare i tempi è stata la Cameo che già nel 2017 ha consentito ai suoi 140 lavoratori della sede italiana di scegliere la postazione più adatta al loro lavoro.

Esattamente ciò che sta facendo dal 2021 la Randstad che si occupa di ricerca, selezione e formazione di risorse umane con sede centrale a Diemen, nei Paesi Bassi. Ad Aliano, come dicevamo, ha aperto una sua sede, al pari di quanto fatto in altre regioni del Sud. Il Group Chief Executive Officer di Randstad Italia, Marco Ceresa conferma: «Siamo convinti che sia importante per le persone lavorare dove sono cresciute e hanno gli affetti». È un vantaggio anche per le aziende che possono trovare competenze e professionalità che difficilmente riuscirebbero a intercettare restando ancorati alla propria sede. «A distanza di un paio d’anni - aggiunge Ceresa - l’esperimento ha prodotto risultati e andremo a implementare ancora di più questo approccio al lavoro». La Randstad s’inserisce nel solco di una tendenza sempre più marcata. Secondo una recente ricerca, infatti, il 61 per cento delle aziende è disposta ad aprire un «hub» di lavoro in paesi di piccole e medie dimensioni perché così si ha la possibilità di accedere a candidati difficilmente «reperibili», offrendo loro la possibilità di abbattere il costo della vita restando a casa. Un’indagine di Svimez, inoltre, condotta su 150 grandi imprese con oltre 250 addetti, stima che sono circa 45mila i south worker che operano nelle diverse aree del Centro-Nord nei settori manifatturiero e dei servizi. Cifra che si stima arrivi a 100 mila unità, se si considerano anche le piccole e medie aziende con oltre 10 addetti.

Un’altra esperienza di successo nell’ambito del Southworinkg arriva da Tursi, dove l’associazione Tursi Digital nomads ha trasformato un ex monastero in una base per south workers. ll progetto, in particolare, è stato lanciato da Salvatore Gulfo, 30 anni, informatico lucano che dopo un’esperienza lavorativa a Roma ha deciso di tornare in Basilicata, nel paese di Albino Pierro, approfittando anche del regime di smart working che nel frattempo la sua azienda aveva previsto in piena pandemia. Qui ha creato, all’interno dell’ex convento, ceduto in comodato d’uso gratuito dal Comune, spazi per il co-working: «Abbiamo ridato vita a un luogo poco utilizzato. Ci sono co-worker fissi e altri ospiti che si fermano per periodi brevi. Si rivolgono a noi - sottolinea Gulfo - le professionalità più disparate, manager o dipendenti di grandi imprese, architetti, ingegneri». Gulfo incarna il profilo del giovane lucano costretto a emigrare per poter lavorare e che, ad un certo punto, decide di tornare per creare qui, in Basilicata, il suo futuro: «A Roma - dice - spendevo 600 euro al mese per stare in una stanza, in più gli spostamenti per andare a lavorare occupavano molto tempo. Insomma, la qualità della vita non era la stessa di quella che ho ritrovato a Tursi. La nostra azienda è soddisfatta della produttività del personale, che è aumentata di pari passo con i loro incassi e l’abbattimento dei costi per gli uffici. Insomma, siamo tutti soddisfatti di questa soluzione».

Per accedere all’area co-working bisogna sottoscrivere la tessera annuale dell’associazione no profit costituita da Gulfo. Il costo è di appena 10 euro per contribuire al pagamento delle spese vive. Con 20 euro si può accedere alla postazione di lavoro avendo anche una serie di servizi come la ristorazione, il fitness e accedere ad eventi per il tempo libero. Nell’ex convento c’è spazio anche per gli studenti universitari che qui possono studiare e riposare: «Proponiamo - precisa Gulfo - un set di strutture ricettive situate nel centro storico della città, a due passi dall’area co-working». Costi accessibili, vivibilità e lontano dal caos quotidiano delle città. «Il nostro obiettivo - conclude Gulfo - è anche ripopolare il paese attraendo, seppur per periodi limitati, nomadi digitali da tutto il mondo. Dal 6 giugno al 20 luglio scorsi una ventina di stranieri ha vissuto qui contribuendo anche a rivitalizzare l’economia locale».

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