Lessico Meridionale

L'insostenibile farsa maleducata di certi dibattiti in tv

Michele Mirabella

Non poteva sfuggirmi, oltre la tecnica del parlarsi sopra e addosso, il reiterato uso del «piano d’ascolto» per smentire

Sono un difficile spettatore della televisione. Avendo ricevuto un’istruzione che cerco, non solo di ritenere, conservare e mettere a frutto, ma, anche, di trasmettere, sono uno spettatore critico. Questa istruzione è anche formazione morale, naturalmente, ma, non solo: è preparazione professionale guadagnata con molti anni di palcoscenico e di studio e di «studi» radio e televisivi e cinematografici. Intendo per «studi» non solo quelli conquistati con l’applicazione volenterosa alla cultura di genere, ma anche negli ambienti di lavoro.

Questa infrazione alla modestia mi porta a scusarmi e uso una perla di saggezza: i tedeschi, cito Karl Kraus, direbbero bildung. Il termine annovera la professione, il mestiere che, nel mio caso, è quella del regista e del conduttore televisivo. Ne consegue che non mi riesce di subire con distacco, da spettatore pigro e rassegnato, il prodotto televisivo, la complessa segnaletica che lo struttura, il codice con cui si esprime e funziona. E sto lì ad indagare il portamento dei protagonisti, il movimento delle telecamere, il montaggio del racconto, anche in diretta, gli «stacchi» del regista, tutto quel complesso sistema semiotico che traduce la realtà in messaggio televisivo e, oggi, di tutti i «media» che annoverino immagini. Informatica compresa.
Capita che giorni fa mi sia trovato a misurare la mia attenzione con i media che uso abitualmente, televisione in primis: nello schermo acceso si trasmetteva uno degli innumerevoli «talk show», programmi in cui (non possiamo dire che non ci hanno avvertito: in italiano si direbbe «spettacolo della conversazione»), si assiepano in salotti stravaganti nello stile o severamente allestiti in tribune, diligentemente dedite agli applausi del pubblico.

Non sto dimenticando che anche io conduco un programma somigliante. Il fatto è che la conduzione avvia una conversazione e gli interlocutori si rispettano perché è divulgazione culturale. Niente applausi se non quelli degli spettatori a casa. L’avevo dimenticato perché, nonostante tutto, non sempre il palinsesto è in cima ai miei pensieri, soprattutto in questo periodo di notizie burrascose. La visione è stata, al solito, tormentata dall’attitudine a non ratificare supinamente lo spettacolo televisivo, ma a studiarlo tecnicamente. E, naturalmente, tra l’altro, non poteva sfuggirmi, oltre la tecnica del parlarsi sopra e addosso, a sé stessi e agli altri interlocutori, il reiterato uso del «piano d’ascolto» per smentire, dissentire, far sentire anche senza emettere parole, ma solo qualche suono inarticolato, borborigmi, risatine.

Che cosa è il «piano d’ascolto»: è quell’inquadratura che l’operatore alla camera propone e che il regista «stacca», manda in onda quando il soggetto sta ascoltando un altro che parla non inquadrato. Nella tecnica del cinema si usa normalmente in quella modulazione del racconto che si chiama «campo e contro campo» e consente di far esprimere con il volto le emozioni, i pensieri, le sensazioni dei protagonisti. Nella vita si ascolta, in cinema e televisione si fanno i piani d’ascolto. Questi, nei dibattiti tivvù, sono tempo rubato a chi sta parlando perché i furbacchioni, quando si accorgono di essere inquadrati, (appositi monitor glielo segnalano), assumono espressioni, fanno smorfie, ridono sardonicamente, fanno gesti, inarcano il sopracciglio, fanno «bum» con le guance, recitano, insomma. E recitano male e con goffaggine: riescono a danneggiare l’avversario ma non seducono il pubblico, lo intontiscono di sberleffi e confondono il dibattito. La ridda si complica con i collegamenti con luoghi che non sono lo studio. Non sono bravi attori, non ne hanno la bildung, tutto qui. A digiuno di preparazione, trasformano il dialogo in litigio, il dramma in farsa. E sono anche maleducati.

L’indimenticabile Karl Kraus sentenzioso, ma acuminato, ricordava: «L’educazione è ciò che la maggior parte delle persone riceve, molti trasmettono e pochi possiedono». Proviamo a sostituire la parola educazione con la parola istruzione e sortirà un effetto di significato attuale. Del resto il termine tedesco bildung, usato da Kraus, è mirabilmente polisenso e annovera, infatti, i significati di formazione, educazione, cultura ed istruzione. In romanesco per dire «maleducato» si dice «ignorante» e un gergale solecismo romanesco avverte: «La gente sono ignoranti». Sono arrivato a consultare mentalmente Kraus durante la contemplazione del mistero, nel senso di rappresentazione, doloroso dello scontro televisivo ultimo scorso. Trovando insopportabile il parlare «addosso» agli altri, vagavo con lo sguardo nella biblioteca, sperando che la raccolta di aforismi di Kraus fosse a portata di mano. Ecco il libro: lì, sbilenco, tra La televisione spiegata al popolo di Campanile, guarda caso, e il vecchio Vernant del Mito e pensiero presso i Greci. Temevo d’averlo perduto, anzi, prestato, che è peggio: perché se lo hai perso, puoi sperare di ritrovarlo, se lo hai prestato, non lo riavrai mai. Perché la gente è maleducata, «la gente sono ignoranti». Forse a furia di vedere certi dibattiti politici nell’universo mediatico. Ovviamente solo quelli fatti male.

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