Lessico Meridionale
Evviva il «Mare nostrum» (senza acquascooter)
Tra le pagine dei mie libri è rimasto il sale di quella brina volatile che si alza fino ai ponti più alti quando le onde sono vivaci
L’uomo che insozza le acque o pretende di appropriarsene, le civiltà che annichiliscono i ghiacciai, inaridiscono laghi e fiumi e deturpano i mari con i relitti alla deriva della sua presunzione consumistica non sanno che l’acqua c’era già da prima. Narciso ci si specchiò per dannarsi nel suo amore impossibile, ma fece anche navigare Enea fino alle fatali terre d’Italia, e Ulisse verso l’ignoto che lo separava da Itaca. Esisteva. L’acqua c’era già da quando, regalmente, fu palcoscenico magnifico di viaggi e avventure e scoperte. Prima dei transatlantici e degli acquascooter, prima degli stabilimenti accatastati sulle spiagge di tutti per consentire a pochi di far soldi. E l’acqua c’era anche prima della cementificazione delle rive, prima dei maleodoranti stabulari per cozze e mostruosi granchi azzurri, prima che qualcuno volle usarla per scrollare dalle insidie della fusione i liquami delle acciaierie.
L’acqua c’era prima che San Francesco la lodasse come umele, pretiosa et casta. C’era, prima delle bottiglie e dei nomignoli sulle etichette scimunite. L’acqua. E Dio la divise con il firmamento: acqua di sopra e acqua di sotto. Brutalmente rendo conto del Genesi che, poi, invece, racconta mirabilmente; Dio disse: «Si raccolgano in un luogo solo le acque che sono sotto il cielo e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto e chiamò Mare la massa delle acque. E Dio vide che ciò era buono».
Da bambino, mi venne incontro il Vecchio Testamento: mi colpì la preesistenza delle acque e quel divino chiamare Terra tutto quello che non era Mare. L’ingenuità esegetica del catechista intuiva l’importanza capitale delle acque che si degnano di scoprire l’asciutta terra. Più tardi, e alle prese con studi più «umani», scoprii i molti modi in cui si può studiare e imparare il mare che è Mare, ma si può anche chiamare Oceano e Pelago e, con mitologica metonimia, anche Poseidone o Nettuno. O, con la cocente gioia del ritorno a casa, da balbettanti reduci: «Thalas».
Ricordate Senofonte? Non fa niente se non lo ricordate. A scuola, del resto, se, prima, ci ammannivano almeno il raccontino dell’Anabasi, oggi neanche si affaticano a narrare di quel sospiro collettivo che si mescolò con la brezza salmastra e rese agli dei lacrime sgorgate dagli occhi abbacinati di sole dei mercenari greci. Singhiozzano felici anche nelle letture della scuola di oggi? No. Impediti dal più catastrofico (ricordate l’etimologia?) disegno di smantellamento della cultura mai concepito sulle sponde del mare nostrum. Anch’io, arrivando dalla città sulle miti sponde di quella porzione poetica di Adriatico che San Nicola aveva intravisto dalle nebbie aurorali, transitando al largo, dicevo, in cuor mio, «il mare, il mare!». Era quella mite plaga da Santo Spirito a Torre a Mare.
Nel mio minuscolo armeggiare con l’Adriatico di casa mia, la Puglia, armeggiare, tutt’al più, balneare, restai sempre intimidito dalla maestà del Mare e, anche se mi ci facevo il bagno estivo giocoso ed infantile, lo guardavo sempre con rispetto e devozione per quella, dove io facevo giochi di schiuma e di esitanti perlustrazioni, che era la stessa acqua che avevano solcato Ulisse ed Enea in mitici vagabondaggi sul crinale trasparente di divine profondità. Il Mare dei libri e dei miti ancora oggi non è mai estraneo alla percezione che ne ho e all’ammirazione che provo quando lo lambisco con il corpo esitante o con lo sguardo avido di orizzonti. Non mi riesce, infatti, di praticare svaghi puri e semplici o viaggi distratti. Appena vedo onde, sia da spiagge facili, sia da murate di barche pacifiche o di navi in vacanza, sia da promenades ariose e civettuole, riservo a Poseidone il timido saluto di un pensiero votivo. Sarà per questa specie di timore reverenziale che non riesco a stabilire con il Mare cameratismi balneari e trovo impudenti i combinati disposti di tintarelle e acrobazie di orribili acqua scooter e micidiali motoscafi affilati come pugnali.
Tempo fa, partito in crociera per le isole greche, portai con me due consunte edizioni scolastiche della Teogonia di Esiodo e l’Odissea. Durante un notturno di salsedine e brezza profumata, nell’Egeo, pretesi di leggere a voce alta i versi in un Greco traballante e scolastico, giocando col sogno che già fu del professor Laciura del sublime racconto Lighea di Tomasi di Lampedusa, di farmi ascoltare dalle misteriose Oceanine che mi auguravo, sarebbero emerse dai loro giochi divini con tritoni e sirene per riconoscermi come amico, anche se, io, nuoto male, come un cane frettoloso. Non emerse nulla, arrivarono solo robusti schizzi di schiuma salata. Rischiai il ricovero nell’infermeria della nave e fui guardato con attenta curiosità e un po’ di diffidenza da tutti passeggeri fino allo sbarco a Santorini. Tra le pagine dei due libri è rimasto il sale di quella brina volatile che si alza fino ai ponti più alti quando il mare è vivace. Li ho riaperti, giorni fa, sulla esigua riva di Santo Spirito e ho riprovato. Niente da fare. Il mare è rimasto muto. Si è levato un gabbiano clamoroso e urlante e, rabbuffato da un alito improvviso di maestralino, ho rischiato lo schizzo sulla faccia di una famiglia di alghe tossiche.