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Il disastro di Chernobyl e il grande terrore nucleare
«Tragedia nucleare in Urss»: è il 29 aprile 1986 e tutti i giornali, compresa «La Gazzetta del Mezzogiorno», riportano in prima pagina una notizia agghiacciante
«Tragedia nucleare in Urss»: è il 29 aprile 1986 e tutti i giornali, compresa «La Gazzetta del Mezzogiorno», riportano in prima pagina una notizia agghiacciante.
Le informazioni sono ancora poche e piuttosto vaghe: l’agenzia di stampa sovietica, la Tass, ha annunciato che nella centrale atomica di Chernobyl, in Ucraina, si è verificata un’esplosione in seguito al danneggiamento di un reattore.
«Sono state prese le misure per eliminare le conseguenze dell’incidente», si precisa nell’informativa, «si sta dando soccorso a coloro che sono stati colpiti». La centrale nucleare è situata a circa 130 km da Kiev, che trentasette anni fa è ancora capitale della Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina e ha un un milione e mezzo di abitanti.
Ci sarebbero già alcuni morti e l’aumento di radioattività nell’atmosfera è stato rilevato in tutta la Scandinavia. Non si conoscono ulteriori dettagli, se non che la centrale è composta da quattro reattori nucleari di circa 1000 megawatt ciascuno e che prima dell’incidente erano in corso lavori per metterne in funzione un quinto.
Un’insolita temperatura si registra in quei giorni in Unione Sovietica: a Mosca si sono sfiorati i 25 gradi e questo ha provocato variazioni di pressione con conseguenti forti venti in direzione della Scandinavia.
La nube radioattiva si è, quindi, diretta in direzione opposta a Kiev. «Fonti diplomatiche della Scandinavia non escludono che possa trattarsi del più grave incidente avvenuto in una centrale nucleare», si annuncia sul quotidiano. Il giorno dopo, i contorni della tragedia si fanno più chiari: è ormai «paura nucleare sull’Europa».
La vignetta di Pillinini in prima pagina ritrae Gorbaciov, nelle vesti di un Indiano d’America, mentre manda richieste d’aiuto attraverso segnali di fumo: sotto il tappeto, però, c’è un fungo atomico. Ormai è chiaro: «Mosca sapeva e non ha dato l’allarme», si legge sulle colonne della «Gazzetta».
«Sembra ormai certo che la notizia del gravissimo incidente è stata annunciata dalla televisione sovietica e quasi contemporaneamente dall’agenzia Tass con 48 ore di ritardo e forse più». L’esplosione è infatti avvenuta all’una e ventitré minuti del 26 aprile: Pripjat, la città più vicina alla centrale, viene evacuata dalle autorità sovietiche solo 36 ore dopo.
L’incidente, come si scoprirà molto più tardi, è avvenuto durante una prova di sicurezza, ma esistono diverse ipotesi sulle cause scatenanti dell’esplosione. Con certezza si sa, tuttavia, che gli operatori hanno commesso in quegli istanti diverse violazioni delle procedure.
L’allarme scatta anche in Italia: nei giorni successivi si diffonderà il timore di «piogge radioattive» che possano contaminare i suoli e le autorità vieteranno perciò il consumo degli alimenti freschi più a rischio, come latte e insalata.
«È ancora presto per dire quanti morti ci sono stati vicino al reattore, quanta parte dell’Urss è stata contaminata, quanta radioattività ricadrà a terra sull’intero pianeta e dove ricadrà e con quali effetti biologici» – si legge sulla «Gazzetta» del 30 aprile 1986 – «È certo però che l’incidente sovietico ripropone il problema del futuro dell’energia nucleare».
Il presidente dell’Enea, Umberto Colombo, sottolinea che nulla di simile potrebbe accadere in una centrale occidentale: tuttavia «è tempo di rimettere in discussione il programma nucleare italiano e intanto va detto un chiaro no alla centrale che vorrebbero imporre alla Puglia», conclude Giorgio Nebbia.
Il referendum abrogativo dell’anno successivo metterà, infatti, definitivamente fine alle aspirazioni italiane di produrre energia atomica. «Cosa accade alla vittima nucleare?», a questa domanda cerca di rispondere con cautela Nicola Simonetti: «Un gruppo di scienziati ha recentemente annunciato che, tra gli altri effetti, una perdita nucleare causerebbe nei sopravvissuti danni del sistema immunitario non molto dissimili da quelli dell’Aids. Il venti per cento almeno dei nati dai sopravvissuti sarà affetto, prima o poi, da una qualsiasi malattia genetica».
Ancora oggi, trentasette anni dopo, non c’è alcun dato definitivo sul numero di morti, diretti e indiretti, per il disastro di Chernobyl.