Onorevole Claudio Stefanazzi, deputato Pd, cosa non funziona nel “Decreto sud” approvato alla Camera?
«È stato scritto a Pontida. L’impianto che ha ispirato il provvedimento e le modifiche al Pnrr, o le scelte per i Giochi al Mediterraneo e sui Cis, è di natura ideologica fondato su due cardini».
Quali?
«Il primo è un movimento d’opinione che imperversa sostenendo che occorre tornare a una programmazione centralizzata. Parte dal dato che il Pil del Mezzogiorno dal 1951 al 1971 ebbe una impennata. Furono gli anni della Cassa del Mezzogiorno. Si tratta di un approccio di tipo statistico, connesso all’epica della Cassa e dell’Iri. Il secondo tema riguarda la sfiducia verso le Regioni del Sud perché non saprebbero spendere. Da qui il dl Sud, che è una sintesi di queste suggestioni».
Cosa contesta a questo impianto del centrodestra?
«L’incremento del Pil si fonda un un errore metodologico. Il Pil effettivamente saliva ma quegli investimenti non hanno creato una filiera locale, a Bagnoli come Taranto, o in Basilicata. Quando sono arrivate poi le crisi industriali hanno travolto il committente principale, demolendo anche l’indotto non autonomo sul piano commerciale. E non vanno dimenticati due altri dati».
Prego.
«Primo, gli investimenti programmati a Roma e realizzati al Sud hanno prodotto danni ambientali pesantissimi che le casse dello Stato continueranno a pagare come maggior spesa sanitaria. Secondo, quelli di cui abbiamo parlato erano gli anni del boom con investimenti industriali ma soprattutto nelle grandi opere. Il Sud venne letteralmente “infrastrutturato” in quel periodo».
Difende dunque le Regioni, quasi tutte governate dal centrodestra…
«Il tema non è che l’oggettiva difficoltà di alcune regioni a spendere, perché questo dato non è connesso alla acclarata capacità delle Regioni di progettare il proprio futuro. Poi i dati sulla spesa dicono altro».
Cosa?
«Rivelano che sono le grandi stazioni appaltanti centrali in ritardo clamoroso di programmazione e spesa, da Anas e Rfi ai ministeri tutti in ritardo».
Tornando al Decreto Sud…
«Di fatto si spacca il Paese a metà, dando libertà di spesa alle regioni del Nord, così giustificando l’aspirazione al trattenimento di parte della fiscalità, mentre al Sud torna il paternalismo di Stato. Si spartiscono di fatto l’Italia tra Lega al Nord e Fdi al Sud, sul piano della clientela politica».
La Meloni ieri da da Vespa replica alle critiche delle opposizioni: «Non mi stupisce (contro il dl Sud, ndr) che le prime a scagliarsi siano quelle in fondo alla classifica della capacità di spendere i fondi europei di coesione».
«Questa dichiarazione conferma il pregiudizio ideologico di fondo».
La vostra controproposta?
«Abbiamo provato a spiegare al ministro Raffaele Fitto che la Zes è la quintessenza del principio della programmazione centralizzata».
La Zes unica non va bene?
«Con una forte cabina di regia non è un errore. Ma diventa uno strumento ideologico quando cancella la specializzazione e quello che Regioni del Sud hanno fatto in autonomia in questi anni per uscire dalla crisi senza che lo Stato centrale abbia avuto una idea di Mezzogiorno, o del ruolo del sistema bancario nel Sud».
Arriva però un credito d’imposta cospicuo per il Meridione.
«Dire che da Roma in giù è tutto una grande Zes con un ufficio romano che dovrebbe esaminare migliaia di domande, con un credito d’imposta ridicolo non sta in piedi... A Fitto ho ricordato che la Zes attuale pugliese è 44,8 km quadrati. La Puglia “tutta Zes” avrà 19mila km quadrati. Bene, su solo 44 km si è sviluppato un credito di imposta di circa 650 milioni di euro. Come può essere capiente per tutta la Zes un credito di solo 1,8 miliardi? Se le risorse sono solo queste, si tratta di un bluff».
Che effetti intravede?
«Quando arriveranno le pratiche di insediamento a Roma e non ci saranno gli uomini per valutarle né i soldi per sostenerle, la scelta sarà discrezionale e prescinderà dall’esistenza di filiere o dalla programmazione pregressa delle regioni».
La Zes unica però si fonda su semplificazioni che imprese attendevano da tempo.
«Sì, dichiarando che tutti gli interventi sono di pubblica utilità, si deroga alle norme su paesaggio e ambiente. Conterà così la velocità dell’iter autorizzativo. Potrebbe arrivare qui un’altra Ilva, imposta da un ufficio romano, non tenendo conto delle istanze locali. Il governo avrà così una potenzialità di programmazione assoluta e discrezionale».
Il Pd ha una differente visione del regionalismo.
«Siamo disposti a discutere un progetto regionalista vero. Lo Stato, per noi, fa una valutazione delle potenzialità del Paese, definisce filiere produttive rafforzate, e lavora per farle crescere. E la cabina di regia romana va bene, ma con una programmazione pluriennale dopo una verifica sulle potenzialità che può esprimere il territorio».
Siete più autonomisti voi del governo Meloni-Salvini?
«Il regionalismo si misura nel dovere di contribuire alla tenuta economia del territorio. Il comparto delle tecnologie digitali della Puglia è funzionale al Paese? Sì e perciò tante aziende delocalizzano nel Tacco d’Italia. Per ciò è necessario consolidare la filiera locale nella catena del valore di imprese italiane, che competeranno sul mercato globale. Così funziona in Germania: i Land programmano e lo Stato armonizza questo sviluppo. L’Italia dovrebbe coordinare centralmente questo processo, non imporre diktat al Mezzogiorno».
Un modello virtuoso in questo senso?
«Il Piano nazionale Industria 4.0 ha funzionato e le industrie del Sud così hanno modernizzato la propria dotazione tecnologica nell’ambito di un progetto nazionale».