FRA ITALIA E GRECIA
Palmisano: «Aprire un dialogo per il mare Mediterraneo»
Il libro dello scrittore barese con Dimitri Deliolanes per Fandango. Oggi il volume sarà presentato a Ginosa Marina nel Legalitria Summer Festival
Un giornalista di lungo corso, con oltre trent’anni di carriera da corrispondente nel nostro Paese, e un autore di inchieste, specializzato nell’analisi di sistemi migratori e criminali. Uno greco, l’altro italiano. Entrambi preoccupati di ribadire la centralità del Mediterraneo di fronte ad una Europa con lo sguardo sempre rivolto a Nord. Dal fitto scambio fra Dimitri Deliolanes e Leonardo Palmisano nasce Mediterranea. Un dialogo (Fandango, pp. 176, euro 17), conversazione a tutto campo che attraversa il mare nostrum non solo da una prospettiva geopolitica, ma anche economica e sociale. Il volume sarà presentato oggi a Ginosa Marina nell’ambito del Legalitria Summer Festival.
Palmisano, dal vostro dialogo quale fotografia del Mediterraneo emerge? A una prima lettura si direbbe tragica...
«Un elemento di tragicità c’è ed è la scomparsa del Mediterraneo dall’agenda europea. È presentissimo invece in quella delle monocrazie africane o asiatiche, a cominciare da Egitto e Turchia, o in quella degli imperialismi orientali».
E questo cosa ci suggerisce?
«Che il Mediterraneo, al di là della miopia di Bruxelles, è centrale, anzi centralissimo. E lo sarà ancor di più nei prossimi anni. I cinesi, per le loro rotte, non guardano a Rotterdam ma a Gioia Tauro, Taranto, Genova».
Mediterraneo centrale ma Paesi mediterranei, sponda europea, molto indeboliti.
«Non c’è dubbio. Nel volume individuiamo tre plessi di crisi: il debito, la politica e i migranti. La situazione di Italia e Grecia è profondamente segnata dalla gestione di questi tre nodi critici».
Quanto i due Paesi si assomigliano?
«Si assomigliano molto, soprattutto negli elementi più spigolosi: dal debito alto al calo demografico fino alla fuga dei cervelli. E poi sono i due Paesi che più di altri, almeno nell’Ue, subiscono l’impatto dei flussi migratori. E, in politica, si assiste a una recrudescenza dei movimenti della destra eversiva ed extraparlamentare come insegna il caso di Alba Dorata».
Qualcuno preconizza: la Grecia è la fotografia dell’Italia fra dieci anni qualora le cose dovessero continuare ad andar male. È così?
«È una frase che si sente spesso. La trovo sgradevole, al limite del razzismo. Inoltre se è vero che le similitudini sono tante, pesano anche le differenze a cominciare da quella capacità dei greci di “accontentarsi” che noi non possediamo. Di certo, entrambi i Paesi scontano dieci anni di politiche europee profondamente sbagliate, una gestione mediocre di governanti incapaci di comprendere la complessità dei problemi e mostrano, tutti e due, un limite strutturale enorme».
Sarebbe?
«Italia e Grecia non si parlano. I due Stati che incarnano la culla della civiltà democratica mediterranea con problemi e virtù simili non dialogano e, così facendo, non riconoscono il proprio ruolo nell’area. Un’assurdità, soprattutto alla luce del declino dell’egemonia tedesca».
Quindi Roma e Atene cosa dovrebbero fare? Siglare un patto di cooperazione?
«La risposta non è, ovviamente, in un accordo bilaterale da inizio Novecento».
E dove allora?
«In una nuova stagione europea che superi l’assurdità di un continente a due velocità e recuperi la centralità mediterranea. La nostra causa non è a Est, quella è la partita della Nato. Noi abbiamo altre priorità a cominciare da una politica comunitaria di accoglienza, con regole uguali per tutti, e da una piena autonomia militare e poliziesca. Il futuro deve partire da qui».
Ma, alla fine, di tutto l’inchiostro versato dagli intellettuali meridiani - da Franco Cassano ad Alessandro Leogrande - cosa resta oggi se ancora tocca difendere, da zero, l’importanza della prospettiva mediterranea?
«Di Cassano è rimasto qualcosa nell’accademia, meno nella società civile verso cui non c’è stato travaso. Di Leogrande resta un po’ di più ma declinato non in senso mediterraneo, il che è improprio. Il problema, a conti fatti, è la politica che in questi anni ha solo finto di ascoltare ma poi, al momento del dunque, ha badato al consenso più che al senso».