La riflessione
Cardini: «La provincialità non è provincialismo»
“La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ricordo perfettamente quel gelido, limpido mattino del ventoso febbraio 1986: l’anno della grande neve. Nella sala del Centro Studi Normanno-Svevi di Palazzo Ateneo, in Piazza Umberto I, squillò il telefono. Era un giornalista “storico” della “Gazzetta del Mezzogiorno”, Giacomo Annibaldis, che mi chiedeva un pezzo sulla Puglia e il pellegrinaggio in Terrasanta nel medioevo.
Ordinaria amministrazione, si dirà. Ma per capir bene la faccenda bisogna fare un passo indietro. Mesi prima, nell’autunno dell’85, mi ero trovato vincitore di cattedra per un posto di professore ordinario di storia medievale: ma la legge prevedeva tre anni di straordinariato su una cattedra disponibile. Va da sé che mi sarei augurato un posto nella mia Firenze o nella mia Toscana; non ero alieno dall’Italia settentrionale, sia per questioni di competenza (la società comunale), sia dati i discreti collegamenti ferroviari. Non ero affatto alieno al sud: anzi, per questioni familiari, lato sensu culturali e perfino - ebbene, sì…- gastronomiche ero (e sono rimasto) alquanto “terrunciello”. Ma c’era la faccenda della distanza da casa: avevo moglie e quattro figlie tra i 19 e i 7 anni e di trasferirsi non era il caso nemmeno di parlare. Quando mi dissero che il grande Giosuè Musca, il fondatore della bellissima e innovativa rivista “Quaderni medievali” e autore di quel capolavoro che è il libro Carlomagno e Harun ar-Rashid (edizioni Dedalo), mi voleva assolutamente del suo istituto, mi resi conto che non potevo rifiutarmi. Ma, lo confesso, accettai obtorto collo.
Bari la conoscevo e mi piaceva: San Nicola, il Petruzzelli, Laterza, le orecchiette…: dubbi però ne avevo, ed andavo ripetendomi che, finito il triennio di straordinariato, ma la sarei filata in qualche modo.
Invece, voilà, coup de foudre. Scesi dal vagone-letto (erano già decrepiti allora) una mattina da lupi, la stazione pareva quella di Anna Karenina: era in corso una bufera di neve destinata a restare negli annali. Avevo sulle spalle un anno accademico di frequenza nell’Università “Lenin” di Mosca che mi era restato nel cuore per molti motivi (alcuni die quali sarebbe sconveniente precisare). Mi sentii tornato a casa. Il giorno dopo, andai di corsa a rivedere la bellissima chiesa russo-ortodossa cittadina, che già conoscevo e che mi affascinava per il suo stile slavo-medievale, così diverso dalle policrome cupole del Cremlino ma tanto simile alle chiese dei film di Ejsenstein. C’è un legame forte tra la Puglia e la Russia, soprattutto per il veneratissimo san Nicola: e magari la “Gazzetta” saprà offrire il suo contributo anche a un nuovo abbraccio tra Mosca e Kiev.
Quando arrivai a Bari, ero comunque un po’ preoccupato per certe voci che mi erano pervenute alle orecchie: qualche collega si era lamentato con Musca per la scelta di quel fiorentino le propensioni politiche del quale secondo molti odoravano alquanto di zolfo. Debbo però dire che l’accoglienza al Normanno-Svevo e in Facoltà fu calorosa, quasi trionfale. A parte i rapporti cordiali con il clan laterziano, mi feci amici carissimi alcuni dei quali purtroppo adesso non ci sono più, ma che restano fra i miei migliori: Licinio, Porsia, Magistrale, Cordasco, Bronzini, Porsia, Brusa, più tardi Otranto e Canfora, e alcuni che soprattutto di Licinio sono stati allievi e ne custodiscono intatti l’entusiasmo per la ricerca e il rigore intellettuale.
Ma ricordo benissimo anche la sede della “Gazzetta”, in Via Scipione l’Africano 264. Non la conoscevo se non di nome: ed ero preparato a collaborare con una testata “provinciale”, magari un po’ velleitaria. Debbo dire che mi stupì al contrario il tono e il taglio “alti” di molti contributi: a volte capitava di leggerci commenti ad esempio di politica estera che stupivano per la precisione e la franchezza. E nelle pagine interne v’era molta “provincialità”, di quella sana e legittima, però pochissimo “provincialismo”.
Fu grazie alla “Gazzetta” che entrai in contatto con Giuseppe (“Pinuccio”) Tatarella, ch’era già un’istituzione cittadina, regionale e nazionale: la nostra amicizia si sarebbe rinsaldata tra ’94 e ’96, quando molto spesso dovevo recarmi a Roma in quanto componente del Consiglio di Amministrazione della RAI. A parte i preziosi consigli dei quali mi era largo su come destreggiarmi con i politici della capitale, con Pinuccio parlavamo spesso di due personaggi pugliesi ch’egli ammirava senza riserve (e io ero d’accordo con lui): Araldo di Crollalanza e Giuseppe Di Vittorio. Qualcuno si scandalizzava di quelle propensioni “bipolari”: al contrario, io le condividevo e ne apprezzavo la libertà di giudizio.
Ma tutto ciò non era affatto strano. Basta guardarla, Bari, per capire il segreto del suo fascino: dalla Città Vecchia – un po’ Istanbul, un po’ Gerusalemme – al Lungomare monumentale. Sarà merito degli emiri del IX secolo, o degli Altavilla, o di Federico II che peraltro non l’amava un granché (“Cave Barenses…”), o di Murat, ma perdinci questa è una capitale per vocazione, e sa di esserlo: altro che “Milano del Sud”! Sono “vincenti” il suo dinamismo, la sua allegria, la sua spregiudicatezza che s’impongono subito anche al visitatore distratto.
Auguri alla “Gazzetta” che torna. Bari merita un grande quotidiano. E il tempo nostro, saturo d’informatica e di telematica, merita che si torni al caro frusciar della carta stampata al mattino, insieme al caffè e alla brioche. Quanto a me, spero di riprendere la vecchia consuetudine d’una collaborazione regolare: qualche amico in Direzione ce l’ho. Ad maiora!