Il reportage
Lecce: benvenuti sui treni-lumaca, più di 5 ore per andare e tornare da Gagliano del Capo
In viaggio con i passeggeri per sondare lo stato dell’arte delle infrastrutture ferroviarie salentine. Zuh, originario di Bali va ad Alessano: «I vagoni sono belli, ma tutto è troppo lento»
LECCE - L’arrivo alla stazione di Galatina – in tasca un biglietto andata/ritorno per Gagliano, per sondare lo stato dell’arte delle infrastrutture ferroviarie locali – restituisce, di primo acchito, l’immagine d’una stazione a tutti gli effetti. Certo, una di provincia e non lo sciamare di Termini a Roma: 2 binari anziché 32, una decina di persone a paragone di migliaia. Ma l’ovvietà dell’ordinario - stazioni che siano tali, ad esempio – qui, in una provincia gravata da un’atavica arretratezza nei trasporti, non è scontata. La costituzione materiale del posto – e Galatina, lo diciamo subito, non fa eccezione – vuole stazioni come avamposti d’un passato ormai andato: poco frequentate, abbandonate a loro stesse. Per questo, a vedere al mattino d’un venerdì qualunque una decina di viaggiatori sulla banchina, l’impressione è di una modernizzazione avvenuta: lo dice la presenza del personale all’interno. E una macchinetta targata FSE – forse l’innovazione più evidente - che sforna ticket di viaggio a comando, a colpi di polpastrello sul monitor. Eppure, per rompere l’incantesimo al contrario - questo bagno di realtà fatto di servizi efficienti - basta poco. Domandando si viene a sapere che il personale è qui per caso, per via di guasti da riparare. «Qui in provincia - spiega un tecnico - è tutto chiuso da 6-7 anni. Non c’è personale, tranne nelle stazioni tronco, come Gallipoli».
Solo il trillo d’una campana annuncia il treno in arrivo, un convoglio nuovo di zecca: giunto in orario – le 9.55 – e dotato di comfort. Colpisce, però, la velocità: si va a 30 km/h. Così sino a Zollino, dove scendiamo per il cambio atteso entro un’ora.
Che la stazione non sia una di quelle tronco lo si intuisce subito. Non c’è niente, se non la macchinetta Fse sul cui monitor campeggia una scritta: servizio non disponibile. Alle 10.59 giunge un gruppo di ragazzini in costume e super santos da spiaggia, e uno va verso la macchinetta. «Secondo me la stanno aggiustando – esordisce - prima neanche si accendeva». Dieci minuti dopo, il trillo della campana avverte del treno in arrivo. «Stupendo», dicono ironicamente: all’orizzonte la littorina.
All’interno della cabina, dotata di aria condizionata, Zuh se ne sta con il telefono alla mano. Con lui una manciata di persone. È originario di Bali, va ad Alessano – spiega – per lavoro. A domanda, risponde: «Il treno è bello, ma va lento».
Lo stesso afferma Carmen Fersini, farmacista di Castro, per lavoro a Zurigo, nella seconda e ultima cabina. Lei, lì su, è abituata a prendere i treni. Quando chiediamo se avverte la discordanza, sorride: il treno è una lumaca, il termometro fa 33 gradi e qui, rispetto all’altra cabina, l’aria condizionata è più un rumore di fondo che un sollievo dalla calura. Carmen scenderà a Poggiardo. Mentre parliamo, d’un tratto, afferra i bagagli pensando di dover andare. Poi si acquieta: siamo ancora a Muro Leccese, ma non c’è modo di saperlo se non sporgendosi dal finestrino. La sentenza sul punto la dà involontariamente il controllore, con il dito alzato verso una ragazza che si era appisolata sui sedili: «Devi stare attenta, altrimenti tutti scendono e tu resti qui».
«A noi – afferma Carmen – non manca niente, se non la cura dei trasporti e del verde. Qui il treno lo prendo solo per necessità. Se non hai una macchina non fai niente».
Mentre parliamo, il panorama all’esterno si blocca: non ce ne rendiamo conto finché lo stop prolungato si impone alla nostra disattenzione. Siamo tra Muro e Poggiardo e ci restiamo per più di un quarto d’ora. «Abbiamo un problema signori, si vede no? Ci sono delle barriere aperte. Siamo in attesa degli operai», spiega il controllore. Poi ancora, dopo i rimbrotti di un passeggero. «Ce sacciu quando partimu, se sapia te dicia no?», scherza, prima della nuova partenza. Dell’arrivo a Poggiardo lo si scopre con il suo avviso, urlato. Carmen, esausta, va via e nella cabina si resta in pochi: noi, la ragazza blandita, a dito puntato, dal controllore per via del cedimento alle sirene della stanchezza e una signora sulla quarantina, che i suoi consigli, evidentemente, non deve averli sentiti - seduta come se ne sta, la testa reclinata sulle spalle, e gli occhi chiusi a dormire.
Arriviamo a Gagliano, il sud del sud, alle 13.12, con 33 minuti di ritardo. Il viaggio - 49.5 km che in macchina, a fidarsi del navigatore, si fanno in una cinquantina di minuti - è durato 3 ore e un quarto. Che di sfacchinata si sia trattata si legge sui volti madidi dei passeggeri o, a preferenza, sulle magliette, dove gli aloni si allungano d’una lunghezza che - a guardarla metaforicamente - appare la riproduzione in scala ridotta della scorribanda compiuta.
Al ritorno la littorina è la stessa e il tragitto lo si fa in 2 ore e 20. Totale del viaggio: 5 ore e mezzo. A proposito di grandi stazioni, lo stesso che si impiega con la freccia da Lecce per Roma-Termini.