L'inchiesta

Sanità, Rsa in Puglia e le regole «dimenticate»: dove finiscono i 265 milioni

Nicola Pepe

Ignorate da 4 anni le disposizioni della Regione. Poche verifiche, un nucleo di «intoccabili» condiziona il settore

Quando una norma viene rimaneggiata troppe volte e desta confusione, le spiegazioni sono due: o è stata scritta male oppure risente dei gruppi di pressione. Si può riassumere in queste battute quanto sta accadendo in Puglia sulle Rsa, acronimo che sta ad indicare «residenze sanitarie assistenziali» che nella nostra regione, almeno sulla carta, valgono oltre 265 milioni di euro (inclusi i centri diurni). Un settore, che da circa quattro anni a questa parte, non sembra trovare pace. Un settore, è bene specificare, ritenuto indispensabile soprattutto visto il trend anagrafico e l’inversione della domanda di assistenza sanitaria, con un 60% che vira alle prestazioni socio sanitarie. Ma anche un settore finito al centro di inchieste. Da un lato c’è la Regione che dal 2019 ha varato nuove regole che non riesce ad applicare (dovrebbero favorire soprattutto gli utenti, in gran parte anziani non autosufficienti, affetti da demenze, disabili). Dall’altro, gli operatori contestano regole definite «inapplicabili» o che, probabilmente rischiano di portare verso un oligopolio visto il tentativo di grossi gruppi imprenditoriali di fare shopping nell’arcipelago di centinaia strutture distribuite in tutta la regione (circa 300 tra Rsa, incluse le riconvertite, e i centri diurni e le 18 Rsa pubbliche).

L’INIZIO 26 ANNI FA

Il punto di partenza di questo «viaggio» affonda le radici nel lontano 1997 quando la Regione vara un un regolamento (il numero 1) che riconosce un contributo (da 40 a 55mila di vecchie lire al giorno) alle «case protette» gestite da enti pubblici, privato sociale, cooperative sociali ed enti morali. A tavola, all’inizio, si siedono in pochi per spartirsi una torta che vale 10 miliardi di vecchie lire. Tuttavia, tale scelta fa insorgere gli altri «privati» (imprese) che si rivolgono ai giudici amministrativi ottenendo ragione: non si può fare un distinguo in nome della libera scelta del cittadino per farsi «curare». Nel 2005 l’allora governatore Vendola è «costretto» da due sentenze del Tar a modificare il regolamento del 1997, soprattutto alla luce di una legge del 2003. Si allargano i cordoni della borsa, le vecchie 55mila lire diventano 32 euro fino ad arrivare, via via ai 100 euro e 33 centesimi di oggi. Nel frattempo piovono i regolamenti a go gò: nel 2004, nel 2005 (ancora operativo), un altro nel 2007 e gli ultimi due, in ordine di tempo, ad aprile del 2019, due anni dopo la legge di riordino del settore sanitario (la n. 9 del 2017) che accorpa «Rsa» ed (ex) «Rssa» da riconvertire, rispettivamente regolamentate con atti del 2005 e del 2007.

Per avere un’idea di come la confusione regno sovrana, basta guardare le 54 modifiche in 5 anni alla legge, le 3 bocciature della Corte Costituzionale in 24 mesi, e una serie di delibere di giunta regionale e circolari. Insomma, un vero e proprio esercizio di complicazione delle cose semplici che, per correggere una norma, fornire una interpretazione, diffondere una nota di «chiarimento», passa da una manina all’altra di questo o quel dirigente, di questo o quel politico.

POCHI IN REGOLA

Il punto è solo uno. Ad oggi, a sei anni dalla legge, e quattro dai due regolamenti di settore, la gran parte delle Rsa che erogano prestazioni per conto della Regione sono senza contratto. E questo fa letteralmente a pugni con un principio sacrosanto cristallizzato da una legge nazionale di oltre 30 anni fa (502/1992), secondo la quale ogni prestazione per conto del servizio sanitario nazionale deve essere oggetto di un contratto, principio che risale ai tempi del Diritto romano. Il problema è che i contratti devono passare dalla «forche caudine» del cosiddetto accreditamento istituzionale (le vecchie «convenzioni»), uno dei passaggi amministrativi obbligatori con il quale si qualifica la struttura sanitaria. Tale atto richiede una verifica accurata da parte dei Dipartimenti di prevenzione delle Asl per valutare il rispetto dei requisiti (ulteriori) «minimi» organizzativi e strutturali (personale sanitario e non, superfici, caratteristiche tecniche e così via). In caso di esito positivo della visita ispettiva, si spiana la strada all’accreditamento e, quindi, alla possibilità di stipulare un contratto per acquisto di prestazioni sulle basi dei Lea, i livelli essenziali di assistenza. Verifiche che procedono a rilento.

IL FABBISOGNO E I SOLDI

Nel caso delle Rsa l’atto negoziale passa dal cosiddetto «fabbisogno» che è l’atto con il quale vengono stabilite a monte le regole di «acquisto», individuando territorio per territorio le prestazioni assistenziali necessarie. Tutto ciò avviene solo con un atto di indirizzo da parte della giunta regionale, ma senza un contratto vero e proprio che, come detto, non può esserci senza il famoso accreditamento.

Non si tratta di una formalità perché il fine (apparentemente nobile dei nuovi regolamenti) è quello di garantire anche un trattamento più dignitoso ai pazienti. Peccato che i buoni propositi sembrano essere vanificati dalle deroghe che consentono di superare alcuni requisiti di carattere strutturale e a uno zoccolo duro di continuare a beneficiare di rendite di posizione che rinvengono dal passato.

Insomma, le nuove regole alla fine valgono per pochi. E tutto ciò produce un paradossale meccanismo in virtù del quale chi fa investimenti e si adegua ai nuovi regolamento, rischia di restare fuori da quello che è considerato un vero e proprio circolo chiuso in cui i «vecchi» - magari con strutture non adeguate e comunque non ancora sottoposte a verifiche - continuano a percepire soldi pubblici (per ora sotto forma di acconti del 60%, riservando il saldo al completamento della verifica). Senza una gara ma con un... vitalizio.

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