le idee
I centri urbani teatri di guerra e di pensieri solitari
Non tanto nel senso dello spaccio e delle rapine, quanto piuttosto perché lo spazio urbano è la prima frontiera della globalizzazione. Il quartiere cambia più in fretta del mondo
Se avesse letto Simmel saprebbe di avere uno sguardo blasé, cioè disincantato e indifferente, in qualche modo «spento» dai troppi stimoli della vita metropolitana. Chi è lui? È l’uomo che cammina per la città. Un uomo qualsiasi in una città qualsiasi. Tanto ormai si assomigliano più o meno tutti: le città e gli uomini.
Passo dopo passo prende forma quello che scriveva Guido Ceronetti, forse l’ultimo viaggiatore letterario: «La città è un vero teatro di guerra». Ma non tanto nel senso dello spaccio e delle rapine, quanto piuttosto perché lo spazio urbano è la prima frontiera della globalizzazione. Il quartiere cambia più in fretta del mondo. Qui si materializzano, in piccolo, ma con una «densità» esponenziale, tutti quei pensieri che a livello planetario si rarefanno nell’iperuranio delle idee o, piuttosto, dei convincimenti nefasti. Il gas (tossico) sale in alto, la materia invece piomba in basso, avvelenata. Sulla città, ad esempio, si scarica - irrisolto - il problema dell’integrazione. Lo pensa subito, l’uomo, ripercorrendo nella mente il dedalo delle strade da percorrere o da non percorrere. Maledice il sindaco che vorrebbe risolvere tutto con luci e tavolini. Maledice il ministro che aveva promesso di mandarli via tutti. Ovviamente non c’entrano nulla né il sindaco né il ministro. Non esiste luogo al mondo dove gli stessi problemi non si riproducano in serie. Le metropoli americane, le banlieu parigine, i sobborghi di Londra. Un giro a Molenbeek? Nessun modello di integrazione ha mai funzionato semplicemente perché non esiste un modello funzionante.
Sale piuttosto la «febbre» nelle forme dei fatti che gonfiano i bollettini delle cronache e dei voti che gonfiano l’estrema destra. L’uomo riflette su quello che succede ogni volta che il Marocco vince una partita di calcio. Le città francesi esplodono. Migliaia di marocchini si riversano in strada, festeggiando. Noi li chiamiamo francesi, ma loro sono marocchini. Si sentono così. Giustamente. Perché conservano una cosa che noi abbiamo perduto, dimenticato: l’identità. Succede questo quando la vita ti strappa da casa. Gli italiani emigrati in America adoravano Mussolini, gli operai turchi della Volkswagen tifano per Erdogan. Fanno ridere quelli che li vorrebbero liberal-progressisti su un carro del Gay Pride perché ormai «civilizzati» da un modello occidentale che continua ad essere razzista nella sua presunta superiorità. La sinistra sbaglia sempre i calcoli. Dopo la Guerra pensò che le donne, conquistato il diritto di voto, avrebbero premiato il Pci. E invece - in larga parte casalinghe di Chiesa - votarono in massa per la Democrazia cristiana salvando il Paese dai mariti che erano tutti un po’ come il Peppone di Giovannino Guareschi. I progressisti non conoscono il popolo, semplicemente perché non lo frequentano. Lo studiano per interposti libri, scritti da altri come loro che il popolo non l’hanno mai visto. Allo stesso modo pensano, un domani, di incassare i voti dei migranti italianizzati senza domandarsi se un musulmano di stretta osservanza, per paradosso, somigli più a Salvini o più alla Schlein. Sui meridionali la Lega ha cambiato idea chissà che non lo faccia sugli immigrati, un giorno.
Pensieri confusi, quelli dell’uomo. Però lo assorbono al punto da ritrovarsi quasi investito da una Tesla. Maledette auto elettriche, non le senti mai arrivare. Che, poi, ne vale la pena? Costano un botto, ci vuole un secolo per ricaricarle. Ma bisogna salvare il pianeta, dicono, fingendo di non sapere che produrre un’e-car inquina più che realizzarne una a motore termico. La coscienza ecologica ha sdoganato le piste ciclabili, i brt (segnatevela questa sigla), le colonnine, la pedonalizzazione delle strade. E i grattini a due euro l’ora. Decongestionare il traffico in base al conto in banca. Sei ricco? Accomodati. Sei povero? Prendi il bus elettrico che ti ha tolto altre centinaia di parcheggi. L’ecologismo - pensa l’uomo, a ragione - commissaria gli stili di vita dei cittadini, si scarica tutto su chi non ha niente. Gli passa per la mente una vignetta, vista sui social, di chissà quale disegnatore: gli aerei di Stato portano i premier alle Nazioni Unite per sentire un discorso di Greta Thunberg. Nuvole nere si irradiano dai loro scarichi. «Dove vanno?» chiede un operaio a un collega. «Alla Nazioni Unite a dire che la mia Panda inquina». È la verità.
La costante è il cortocircuito. Il problema dell’immigrazione o dell’ecologia si abbatte sulle periferie ma lo «pensa» il centro: sono quelli degli attici che dicono «apriamo i confini» o «salviamo il pianeta» ma sono poi quelli dei quartieri popolari che li devono accogliere o che devono rinunciare alla macchina. Quindi inutile farsi incantare dalle palazzine d’epoca, dai viali alberati, dalle vetrine tirate a lucido. Dove c’è il «bello» c’è il cervello impazzito della città, quello che delira ben protetto dalla scatola cranica dei propri agi.
L’uomo continua a camminare nelle strade. Sfila lui e sfilano pensieri triti e ritriti, quasi noiosi: le botteghe non ci sono più, solo le grandi catene. I bambini non giocano per strada, non è sicuro. E poi quell’identità perduta per far spazio al «grottesco», cioè al pregiudizio che il turista pretende venga confermato nel pacchetto vacanze. Centurioni a Roma e mimi a Parigi. Mignotte, hashish e tulipani ad Amsterdam. Se spunta una rosa non va bene.
C’è confusione. «La città è una grande comunità in cui le persone si sentono sole tutte insieme». La frase è di Herbert V. Prochnow, un banchiere americano. Sembrava russo dal nome, per fortuna non lo è. La citazione è salva e la passeggiata volge al termine, dopo l’ultimo tornante l’uomo è atteso dalla nostalgia (ma di cosa?) che è la periferia estrema dell’anima. Non c’è nemmeno una Flotilla con cui salpare. In città non si può. Si può solo fare quello che l’uomo occidentale non sa fare: combattere. In fondo, un quartiere è il figlio piccolo di un’idea grande. Cambia l’idea e cambierai il quartiere.