Teatro

Duse, sussurri e grida del demone teatrale

Pasquale Bellini

F ra inni, bandiere e applausi, un treno funebre percorre l’ Italia: è quello che trasporta a Roma da Aquileia nel ‘21 la salma del Milite Ignoto. Nel film di Pietro Marcello, Duse, tali ricorrenti sequenze (blandamente colorate dai filmati d’epoca) accompagnano a mo’ di metafora evidente parecchi funerali: quello della vecchia Italia prebellica, con la sua classe politica liberale agonizzante nel precipitare verso il fascismo, quello della vecchia Europa delle libertà e delle arti, in definitiva quello, sfumato da lacrime e sorrisi, della stessa Eleonora Duse che nel film percorre gli ultimi anni (fra il 1918 e il 1923) di vita e di carriera, prima della morte, complice la tubercolosi, a Pittsburgh in America, durante l’ ultima tournée, nell’ aprile del ‘24. Un film, questo con protagonista Valeria Bruni Tedeschi, risolto come omaggio più intriso di melodramma che di commozione (tanto meno di cura storica) sulla Grande Attrice nei suoi ultimi tempi. Aleggia la dolce ala del disfacimento: esistenziale, storico, politico, col paesaggio a momenti impressionista nella fotografia degli esterni, con molta Venezia e molta laguna e con l’Isola di S. Michele (cimitero veneziano) da sfondo e da monito, a momenti poi viscontiano nell’accumulo decorativo degli interni, vedi l’atelier-museo dello scenografo Mariano Fortuny, dove Eleonora indossa i suoi robe-manteau, le sue svolazzanti mises art-déco alla Isadora Duncan. Molti primi piani indugiano sul volto assai mobile e bello della Bruni Tedeschi in sorrisi, lacrime e “rughe d’espressione”, spesso accostato a quello del Gabriele D’Annunzio un po’ losco e laido (inutilmente ostile a Mussolini e al fascismo) di Fausto Russo Alesi. E già: D’Annunzio, Mussolini, il fascismo, la storia. La Duse nel ‘21 tenta di nuovo (dopo dieci anni fuori dalle scene) la via del teatro, sia perché sempre morsa dal “demone teatrale” sia perché indebitata e quasi sul lastrico, e rimette in scena il vecchio caro Ibsen de La donna del mare con esiti incerti. La macchina da presa indugia sugli orrori della guerra già alle spalle (ospedali da campo, morti, feriti) poi mostra spesso le violenze fasciste, i pestaggi, le prevaricazioni. La figura di Mussolini è risolta con un’ovvia caratterizzazione mimetica (Vincenzo Pirrotta) o quando assiste alla prima dell’Ibsen alla Fenice, o quando tenta di ingraziarsi la Duse, dopo la Marcia su Roma e il ’22, con un aiuto economico e un vitalizio. Più corposa è la sagoma qui di Russo Alesi, un D’Annunzio ambiguo, ex amante ma tuttora fedelmente benevolo e benvoluto. Dopo il catastrofico finale dell’impresa di Fiume nel dicembre 1920, fra velleità politiche e inutili vituperii contro Mussolini e i fascisti, il Vate esercita nel film di Marcello quasi una mortifera egemonia (lui che ha scritto il romanzo Trionfo della morte, per non dire della Città morta, tragedia che Eleonora vuole allestire nel ’22): carezze quasi terminali fra i due ex, con “sussurri e grida” e primissimi piani di altisonante sudata evidenza. Spazio si ritaglia, come segretario di D’Annunzio, Giordano Bruno Guerri, che fa se stesso. Più scontato ma correttamente sviluppato il coté teatrale, con prove, smanie e virulenze degli attori (Ermete Zacconi è Mimmo Borrelli, Memo Benassi è Vincenzo Nemolato) con lezioni di recitazione della Maestra, che è pur sempre quella che ha ispirato Stanilasvskji e il suo “metodo”. Applausi, ovazioni e fischi di un “teatro all’antica italiano” solo in parte rinnovato dalla Divina. A Fanni Wrochna è affidato il ruolo dell’ambigua Désirée, possessiva segretaria, contrapposta alla figlia della Duse, quella Enrichetta Checchi che inutilmente anela all’affetto materno (Noémie Merlant). Film certo decoroso e decorato, nel mesto epicedio alla grande Diva. Film che, forse con indulgenza, ricostruisce o inventa una figura di donna e di attrice ben più generosa di sentimenti e affetti di quella reale e storica. Poiché la vera Eleonora, nata e cresciuta “nell’arte” del teatro italiano dell’Ottocento con le sue durezze (debuttò a 4 anni, a 9 fece Cosetta dei Miserabili di Hugo, ecc.) an che sentimentalmente fu ben più complicata e travagliata delle edulcorate ricostruzioni. Dato che ovviamente “non si vive di solo D’Annunzio”, lei a 20 anni ebbe un figlio (Mario, morto in fasce) dal giornalista napoletano Martino Cafiero, poi sposò Tebaldo Checchi attore, padre della Enrichetta, poi una relazione con Flavio Andò capocomico, quindi il lungo travagliato rapporto con Arrigo Boito, infine il decennio con D’Annunzio e le sue Piogge nel pineto, ancora intanto il banchiere austrorusso Alexander Wolkoff, poi Robert von Mendelssohn, parente del musicista. Ma il vero amante, padre, fratello, figlio, marito, padrone fu il teatro. Il resto, uomini da letto e da tasca, D’Annunzio compreso e poi Mussolini, e il fascismo e la guerra... dettagli, elementi di contorno, danni collaterali nella guerra eterna del teatro.

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