Icaro

Ho fame d’arte. E cerco risposte

Rocco Joos

Mi ritrovo qui, incastonato fra tante teste bianche, pellicce opulente, maglioni in cashmere apatici, cover del telefono “a libretto” e voci saccenti. Dagli occhi di un diciottenne, quale me, si desume che la massa circostante sia un bioma terribilmente estraneo. Ma in sostanza questa è la gente che frequenta i luoghi d’arte barese: la solita nicchia (over 40) che affolla i pochi spazi espositivi della città. Eppure non sono l’unica vittima d’arte: percepisco il bisogno dei miei coetanei di dissetarsi con la freschezza, con il progresso, con l’opera d’arte in sé per sé. Tale necessità si è plasmata in fame latente, oppressa. Gran parte di noi ha accettato la sterile realtà barese come unica via di salvezza: è riuscita a mistificare il nulla cosmico attraverso un assiduo edonismo intrinseco nella cultura della città. Pura invidia. Invidio genuinamente coloro che si accontentano di un panzerotto colante, di un Bif&st all’anno, di uno Spazio Murat; io ho bisogno di altro e in questa richiesta apparirò, per alcuni, arrogante, ma per altri (spero) rivendicativo. Non riesco a placare la mia fame di Arte, difatti la ricerco con serietà; tuttavia la mole di risposta non appaga. È doveroso confrontare, su una qualsiasi applicazione che pubblicizza eventi artistici, l’abissale differenza contenitiva tra il capoluogo pugliese (la cosiddetta “città in movimento”) e diverse altre città metropolitane italiane. Qui mancano gli spazi, dunque le iniziative. Tale penuria evidenza l’origine della questione: l’eterno oblio dell’arte a Bari come conseguenza del profondo sonno delle politiche culturali avvicendatesi fino ad oggi (pare che il sonno di Orlando abbia sempre costituito, nella tradizione letteraria italiana, un archetipo esemplare). Mi preme, con spasmodico bisogno, segnalare la seconda carenza dell’ambito: la pubblicizzazione delle iniziative. Questo appare forse come l’aspetto più subdolo e paradossale: la locandina, il cartellone, il manifesto sono entità anomale. Il cittadino, sviscerando le vie più frequentate di Bari, si ritrova immerso in pubblicità estranee alla mostra d’arte. I social media stessi prendono le distanze da questa sponsorizzazione, forse la più nobile. Così, chi è incluso nel circolo elitario può soddisfare senza difficoltà la propria esigenza estetica, mentre chi è emarginato resterà tale. A Bari l’arte si percepisce come cosa privilegiata: i volti dei frequentatori sono gli stessi, gli ambienti evaporano perché statici, sporadici, e il contenuto che offrono non ritrae tale crisi. Ma l’artista non si ferma, vive per la creazione e questa non può essere censurata, tantomeno soggetta a criteri prettamente economici. In tale spaccatura è conseguenziale la comparsa di artisti anonimi, estranei alle regole di mercificazione (è legittimo precisare che la loro attività artistica non costituirà una fonte di reddito e si presuppone quindi che trovino guadagno attraverso altri canali). Celebri sono i loro pseudonimi: “The Guerrilla Girls”, “Banksy”, “Hogre”, “Slinkachu”. Essi, svincolati dalle misere offerte cittadine, rendono eterna e democratica la propria arte. Sfuggono ai limiti sociali, fondendo la denuncia nell’emancipazione. La città osserva; tacita la ribellione.

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