Poesia
Negli abissi di tutti i giorni
Il milanese Tiziano Rossi, tra più raffinati e apprezzati interpreti della «scuola lombarda», fa del quotidiano un rumore di fondo, una colonna sonora, un inno alla varietà mesta e speranzosa, illusa e disillusa, dell’epica quotidiana
La sconsolata constatazione di Octavio Paz, che sapeva di sentenza senza appello, è stata ribaltata. «Con la modernità la poesia si è ritirata ai suoi margini». Lasciare che la poesia scruti e racconti il tempo nemico è la mossa che non t’aspetti: trae dai margini e riporta al centro. Tu mi cacci, io ti metto in versi. Scacco matto.
Il milanese Tiziano Rossi, tra più raffinati e apprezzati interpreti della «scuola lombarda», fa del quotidiano un rumore di fondo, una colonna sonora, un inno alla varietà mesta e speranzosa, illusa e disillusa, dell’epica quotidiana: Il Brusio (Einaudi) è la sua più recente raccolta di poesie, un ritorno ai versi dopo aver disteso la penna in prosa con, in ultimo, Gli affaccendati (Moretti&Vitali, 2024). Non c’è discontinuità, anzi. Tutto si tiene. Sono infatti gli affaccendati a produrre il brusio nella «città faticante» dove è meglio non svegliare l’umanità sonnambula. Nessuno si sottrae, nessuno può sottrarsi.
Ma se la poesia è una danza parlata (Simonide), chi balla «nella nuova era geologica»? Ballano le grandi ombre della Storia, dalla malattia alla guerra («porcheria mondiale», come sentenzia un tale senza più gambe, scattando in piedi per orgoglio). Ballano gli uomini. Ballano gli animali. Ballano gli uomini come animali e forse, così facendo, si risparmiano un po’ di drammi («un cuore da cane quieto / che non chiedeva futuro»). Ballano i bambini, alla maniera loro e finché possono («negli anni le fate mancheranno / e ci saranno / domande difficili»), gravidi di speranze e di inconsapevoli sorrisi. È un mondo di schegge, perso nel proprio piccolo presente, narrato a tessere di mosaico di tanti colori che si risolvono in uno solo che, però, colore non ha. Parafrasando Foscolo, sono versi che non sempre suonano ma di sicuro creano. Fanno e disfano l’anima, per così dire, di un mondo che a volte fa più paura dei mostri di Lovecraft perché l’orrore di Cthulhu non è nulla di fronte all’abisso dell’umanità che «conta le piastrelle del pavimento». Qualcuno prova a darsi un tono. A raccontare di incursioni favolose nell’Amazzonia profonda, ma sono bugie «perché solamente conosce / quella boscaglia che sta / sopra il paese». E allora un altro tenta un gioco di prestigio: fingersi rinoceronte, potente animale, «ma conto niente». Forse agli invisibili va meglio ma degli angeli, purtroppo, «si sa pochissimo».
Nemmeno per la Morte cambia lo spartito: «si dà da fare». L’hanno messa in mezzo, tra gli affaccendati, persa forse pure lei nel «territorio supremo del supermercato». Cosa resta, quindi, per non perdere la vita nella «poltrona serale», come il signor Terbi? Si può sperare nel «non possibile» ma solo dopo «aver fatto i compiti». Non è una soluzione. Anche cantare l’aria di un’opera, al massimo, fa sbandare un poco l’aperitivo. Lo capisce una voce che non ha nome: «Il suo vero problema è come guarire l’anima». Difficile, però, senza guardare né il Sole né la Luna. Senza svegliarsi dal sonno urbano. Eppure qualcosa torna dal passato, almeno per l’autore. È il papà che affiora dai versi come in altri testi si era affacciato nei sogni.
Vanni Rossi, padre di Tiziano, appunto, pittore ispirato dalle trame religiose, scomparso nel 1973. Al poeta sorge il dubbio di cosa fare. Una buona idea potrebbe essere raccontargli i prodigi del tempo presente, le meraviglie della tecnica, i grandi ritrovati e i grandi manufatti. Alla fine della giostra, l’unica vanità dal ventre delle metropoli per la gioia dell’umanità blasé. Poi si ferma. E ci ripensa. «No, no / solo una cosa adesso gli devo / chiedergli scusa». Ed è come se in un colpo d’ala si fosse squadernata l’inutilità metafisica di secoli di marchingegni, di affanni, di faccende. E di affaccendati. Nella selva dei perché, solo una carezza di tre versi può dissipare le nebbie del mondo moderno. Almeno per un attimo si rivede la Luna. «E siamo tutti rimasti / lì a contemplarla».