Ciak
L’Oscar possibile tra sogno e utopia
Tanto vale consolarsi, senza doverlo inventare, con il festival possibile: il Bergamo Film Meeting che dall’8 al 16 marzo tra le tante retrospettive reca come fiore all’occhiello quella, a cento anni dalla nascita, sul cineasta polacco Wajciech Jerzy Has
La 97ª edizione degli Oscar è stata memorabile. Con coerenza e coraggio i riconoscimenti maggiori sono stati convogliati su due film fondamentali: The Apprentice – Alle origini di Trump dell’iraniano Ali Abbasi che analizza, anzi psicanalizza l’attuale presidente rieletto lo scorso 20 gennaio; e Giurato numero 2 di Clint Eastwood, straordinario soprattutto per il ritratto femminile davvero controcorrente della pubblica accusa incarnata da un attrice potente come Toni Collette, in grado di ribaltare con inedito senso civile uno stereotipo di avvocatessa in carriera. Chi l’avrebbe mai detto che l’Academy a due mesi dalla rielezione di Trump avesse l’ardire di premiare per il miglior film e la miglior regia proprio The Apprentice che scava negli anni giovanili del futuro 45º e 47º presidente statunitense e coglie i segni precoci di un disturbo patologico a livello di “formazione” con il principio dell’illegalità compulsiva pronto a (de)generare in scalata, tra narcisismo e violenze, anaffettività e menzogne.
Mai film fu così diretto nel cercare le radici amorali in chiave economica, giuridica e psichiatrica di un comportamento talmente sistematico da prefigurare un rispecchiamento reciproco con il vasto elettorato avvenire. I giurati con gli Oscar non hanno temuto quindi censura, autocensura o poteri forti nel dare manforte allo sguardo esterno e perciò impietoso di Abbasi, capace di rendere il formato ridotto dello schermo quasi quadrato in un perimetro inversamente proporzionale alla maniacale, insostenibile e millantatrice grandezza di questa fattispecie di protagonista. Stesso discorso vale per la sfida aperta dell’ultranovantenne Eastwood ai luoghi comuni di una certa tendenza femminile che si sta trasformando in retorica restrittiva e dittatura delle parole: donde l’Oscar assegnato per la migliore interpretazione a una donna profondamente etica e perciò insospettabile che Toni Collette interpreta prendendo in contropiede la stessa mappa mentale dello spettatore, fino all’ultima scena.
Stop. Chiunque abbia letto fin qui l’articolo sa che le cose sono andate diversamente. L’Oscar possibile raccontato dalle precedenti righe, spiace dirlo, è stato una simulazione, un sogno, un’utopia. Tanto vale consolarsi, senza doverlo inventare, con il festival possibile: il Bergamo Film Meeting che dall’8 al 16 marzo tra le tante retrospettive reca come fiore all’occhiello quella, a cento anni dalla nascita, sul cineasta polacco Wajciech Jerzy Has, erede di Luis Bunuel e maestro di Terry Gilliam e David Lynch. Della filmografia di Has si privilegiano spesso soltanto Il manoscritto trovato a Saragozza e La clessidra, ma è impossibile ragionare per categorie o stabilire un prima o dopo tra titoli che trascendono il reale o trattano il fantastico realisticamente. Ogni riquadro che ne compone l’ampia tela audiovisiva concorre a completarla e a confermare l’assioma, poi recepito da Peter Handke e Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino, che «le storie esistono soltanto nelle storie».
Cioè quando le “storie” non duravano le ventiquattro ore imposte dai social e dalla soglia bassa dell’attenzione odierna, ma sussistevano come storia alta del cinema.