L'intervista

Luciana Castellina: «Donne, vi spiego il mio femminismo della differenza»

La presidente onoraria dell'Arci: «Siamo intrappolate in una gabbia culturale che ci schiaccia, ma non sono le donne a dover cambiare è il modo in cui è organizzata la vita collettiva a dover diventare a misura femminile»

«Donna non si nasce, si diventa». È la frase iconica che riassume l’opera forse più nota di Simone De Beauvoir, Il Secondo Sesso. E solo una donna può comprendere quanto sia vera questa affermazione. Esistere, pensare, parlare, senza costrizioni, senza gabbie, senza paura. Donna non è solo una parola: lo sa bene Luciana Castellina, classe 1929, militante politica, giornalista, parlamentare comunista, più volte eurodeputata, presidente onoraria dell’ARCI dal 2014, ambientalista e soprattutto femminista. Forse ultima rappresentante, lucida e vigorosa, di quel movimento sessantottino con la F maiuscola di cui oggi si sono quasi perse le tracce.

Secondo lei esiste ancora il femminismo in Italia?

«Certo che esiste. È l’unico movimento che cresce stabilmente assumendo forme diverse. Oggi bisogna parlare di una varietà di femminismi. Le nuove generazioni hanno preso una linea che però a me non convince molto, cioè affermare che le donne sono forti come gli uomini. Non è vero. È indifferente essere uomo o donna, io credo convintamente invece nel femminismo della differenza».

Cosa intende?

«Il problema è che oggi le donne vogliono essere come gli uomini. Ma mi chiedo che ce ne importa a noi di diventare come un uomo? Non mi pare un grande obiettivo nella vita, no? Io voglio soltanto che la società, nelle sue leggi e nel suo modo di essere organizzata, riconosca e legittimi la differenza tra le donne e gli uomini. E tutto questo è possibile se si riconosce un imbroglio storico, quello che io chiamo l’imbroglio del “neutro”: utilizzato come riferimento di tutte le regole, di tutte le leggi, dell’intera organizzazione della società. Ci si è inventati un cittadino neutro e tutto è stato riferito a “lui”. Un cittadino neutro disegnato però come un maschio, come se questo potesse andar bene per tutti, ma è un imbroglio, appunto. Non è vero che maschi e femmine sono uguali: hanno esigenze diverse, corpi diversi, menti diverse. E io sono convinta che le donne patiscano questo grande imbroglio, vivendo in una gabbia di un’identità uguale a quella dell’uomo. Simone De Bouvoir diceva che “per capire cosa significa essere donna, ci vuole il lavoro di tutta una vita”. Aggiungo che una vita non basta: noi donne siamo state ignorate per troppo tempo, anzi siamo state colonizzate. E quando uno viene colonizzato, non sa più chi è. È giunto il momento di riscoprire chi siamo realmente e di aprire questa gabbia: è questo che fa il femminismo in cui credo».

Facciamo un gioco, le dico tre parole: resilienza, resistenza e rivoluzione. Quale di queste rappresenta di più la donna?

«Senza ombra di dubbio la rivoluzione. La rivoluzione è donna: intanto mi piace che sia un termine femminile e mi piace ancora di più perché la rivoluzione delle donne è forse la rivoluzione più importante di tutta la storia dell’umanità. L’oppressione delle donne, il patriarcato, la prepotenza degli uomini è comune a tutte le società e a tutte le religioni, e quindi la rivoluzione delle donne diventa subito una rivoluzione mondiale. La donna è per natura resiliente: resiste agli urti e difficilmente si rompe, mentre la parola resistenza non mi piace associata al mondo femminile, perché non si resiste a una oppressione, bisogna liberarsi dall’oppressione. Resistere significa sopravvivere, nonostante le avversità, è un sinonimo di sopportare. Ma noi non vogliamo sopportare, noi vogliamo sopprimere ciò che ci schiaccia».

E cosa schiaccia le donne?

«Beh è la società contemporanea. Siamo intrappolate in una gabbia culturale che ci schiaccia, ma non sono le donne a dover cambiare è la società e il modo in cui è organizzata la vita collettiva a dover diventare a misura di donna. Le faccio un esempio: tutta la storia delle quote rosa a me non convince tanto, perché le donne oggi sono la maggioranza in tutti i campi lavorativi. Però poi se si va a fare un confronto ci rendiamo conto che il 95% dei maschi in carriera riesce a costruirsi una famiglia, le donne invece no. Solo il 30% delle donne che ricoprono un ruolo apicale nel mondo del lavoro riescono a mettere al mondo dei figli, questo vuol dire che il restante 70% deve rinunciare alla famiglia, in altre parole deve rinunciare a uno dei valori essenziali della donna: quello di creare la vita. Ed è qui che la società dovrebbe intervenire e mutare».

Cosa ne pensa della maternità surrogata come reato universale?

«Ritengo sia aberrante che una questione come la maternità surrogata venga assimilata a un reato universale, alla stregua della pedofilia, dei crimini di guerra o della violenza sulle donne. Lo Stato non si può immischiare con le sue leggi in una cosa così intima. Questa invadenza è già di per sé una cosa da combattere. Sia chiaro: non mi piace che una donna sia costretta a partorire un figlio per denaro, anzi ritengo sia una cosa da impedire, ma non mi piace neppure che qualcuno decida cosa una donna possa o non possa fare del proprio utero».

Se avesse di fronte la presidente Giorgia Meloni, cosa le direbbe in tema di diritti?

«Guardi alla Meloni vorrei proprio chiedere perché lei e il suo governo amano definirsi “conservatori”? Cioè, che cavolo vogliono conservare in questo mondo che ha talmente tante cose da cambiare?».

Se dovesse lasciare in eredità una parola alle giovani donne del domani, quale sceglierebbe?

«Ne sceglierei due: lotta e cura. Lottare per la socializzazione dei servizi di cura, per gli asili nido, per avere dei posti dove si possono accudire gli anziani. Una lotta sociale che va a braccetto con la cura del prossimo. Le donne hanno una grande ricchezza rispetto agli uomini: siamo capaci di plasmare il mondo in maniera libera, perché abbiamo la possibilità di generare vita. È questa la nostra ricchezza, è un potere, è un privilegio. Abbandoniamo l’idea dell’angelo del focolare: prendersi cura degli altri non deve ricadere sulle spalle delle donne, inducendole a vivere una sorta di forma di schiavitù legata al senso del dovere. A me questa sembra una delle oppressioni peggiori che il femminismo di oggi (e del domani) deve e può combattere».

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