l'intervista

I quaderni di Gramsci a Bari Vacca: mito nella cultura italiana

Dal 15 la mostra nel capoluogo. Il politilogo (ex Fondazione Gramsci):la rassegna ospiterà anche 100 fra i 400 volumi che costituirono la biblioteca di Gramsci in carcere a Turi

LEONARDO PETROCELLI

I «Quaderni del Carcere» di Antonio Gramsci approdano, fisicamente, per la prima volta in Puglia. Un arrivo che sa di ritorno, in realtà, poiché il pensatore di Ales ne compilò la maggior parte durante la detenzione nel penitenziario di Turi, dove ebbe il permesso di scrivere dal gennaio del 1929. Da allora fino al declinare del 1933, quando lascerà Turi per Formia, Gramsci completò 21 quaderni su 33. Tutti, però, nella loro completezza autografa, saranno visibili a Bari, presso il Museo Civico, dal 15 novembre fino al 12 dicembre. Una grande esposizione - completata da due convegni internazionali e numerose iniziative a latere - che giunge in Puglia dopo le fortunate tappe di Roma, Cagliari e Londra, a completamento del lungo percorso dell’«Anno Gramsciano», cioè delle iniziative organizzate in occasione dell’ottantesimo anniversario della morte di Gramsci.
«I Quaderni – spiega il politologo Giuseppe Vacca, già presidente della Fondazione Istituto Gramsci - non sono mai stati mostrati al pubblico fino al 2011. L’esordio fu a Roma durante una mostra per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Ora finalmente il pubblico avrà la possibilità di ammirarli».

Professor Vacca, iniziamo dagli aspetti più generali. Qual è il valore profondo di questa iniziativa?
«I Quaderni del carcere sono, in qualche modo, un mito nella storia della cultura italiana. E consentirne la visione a un pubblico largo e non solo a pochi specialisti, come accadeva fino a due anni fa, ci ha offerto una significativa verifica: l’emozione provata dagli studiosi di fronte agli autografi non si deve tanto alla conoscenza dei contenuti, quanto piuttosto alla contemplazione di quella scrittura regolare, ordinata, senza cancellature, disposta in quaderni scolastici, che la visione permette di provare. Inoltre, mi sia permesso di aggiungere che la mostra ospiterà anche cento fra i quattrocento volumi che costituirono la biblioteca di Gramsci in carcere, selezionati in base ai riferimenti più significativi sia nelle Lettere che nei Quaderni. A complemento, infine, un bel catalogo in cui ciascun libro è raccontato proprio attraverso i pensieri e le valutazioni di Gramsci».

Dalle pagine ai luoghi. La presenza fisica dei Quaderni qui, in Terra di Bari, potrebbe essere definita una sorta di «ritorno»?
«Innanzitutto, i quaderni erano fisicamente quelli prodotti dalla vecchia cartoleria Giuseppe Laterza & figli. E mi sembra un dato non irrilevante. In più, il carcere di Turi è ormai inteso come un luogo simbolico della cultura internazionale e non solo presso coloro che hanno a cuore Gramsci. È una eredità più generale. Gramsci dice Turi, Turi dice Gramsci. Dunque, è giusto e doveroso offrire per la prima volta al pubblico barese, a conclusione dell’Anno Gramsciano, l’opportunità di fruire di una mostra così significativa».

Il richiamo alla cultura internazionale passa anche per il successo della mostra a Londra?
«All’inaugurazione c’erano circa mille persone. Un successo notevole che, seppure non in quelle proporzioni, abbiamo riscontrato anche otto giorni dopo in una delle iniziative a latere dell’esposizione: la presentazione dell’ultimo volume della serie “Studi gramsciani nel mondo”, dedicato proprio a Gramsci in Gran Bretagna. Esattamente come nel giorno dell’inaugurazione abbiamo registrato con grande piacere la presenza, attenta e partecipata, di numerosi giovani».

Perché Gramsci va forte tra i giovani inglesi e, in generale, presso un pubblico europeo d’età più verde?
«Per quanto riguarda l’Inghilterra, direi che c’è un momento-Gramsci da sommare ad un momento-Corbyn. Le due cose s’intrecciano e si rilanciano. Il personale del leader laburista utilizza generosamente l’immagine di un pensatore politico universalmente riconosciuto nella sua originalità. Non sono studiosi, sia chiaro, però frequentano molto le suggestioni del pensatore di Ales. Di fatto, Gramsci è tornato a crescere in termini d’uso nel dibattito pubblico, non solo inglese. In Italia, è statisticamente l’icona politica più frequentata nei social al punto da poter parlare di un vero e proprio fenomeno Gramsci-pop».

A compensare la leggerezza del pop saranno le riflessioni dei tanti relatori del convegno internazionale «Gramsci, la guerra, la rivoluzione. Tra Oriente e Occidente» (ne riferiamo in box, nda)…
«Sarà un momento prezioso di riflessione, arricchito dalla coesistenza di due linee di intervento. Accanto agli studiosi che affronteranno i diversi temi in modo classico, relazionerà chi frequenta gli scritti di Gramsci per trovare risposte ai problemi politici contemporanei e, più in generale, ai grandi temi posti all’incertezza dell’epoca presente»

Lei, in particolare, ragionerà sul tema «La crisi della civiltà europea nel pensiero di Gramsci». Perché questa scelta?
«Oggi noi siamo di fronte ad una crisi del progetto europeo. Si tratta di una realtà completamente diversa da quella affrontata da Gramsci e relativa al ciclo di crisi che, attraverso la Grande Guerra, conduce al baratro della Grande Depressione del ‘29. Eppure c’è qualcosa che unisce i due momenti: la constatazione della crisi della civiltà europea quale tema centrale intorno a cui articolare il ragionamento, non soltanto in termini pessimistici. In una analisi ricca di suggestioni e aperture, in cui Gramsci guarda sia al movimento comunista, in quel frangente isolato e incapace di una narrazione egemonica, sia all’americanismo, egli intravede due vie d’uscita: il raggruppamento regionale dell’economia, cioè l’anticipazione del processo europeo, e la nuova missione cui sono chiamati i partiti che, in generale, rappresentano il lavoro».

Torniamo al lungo «serpentone» dell’Anno Gramsciano. Può trarne già oggi un bilancio?
«È stato più di un successo. Lo definirei una vera e propria esplosione che continua ad interessare un numero decisamente largo di persone grazie all’utilizzo di linguaggi sempre diversi a cominciare da quello cinematografico. A Roma, sfruttando la coincidenza del centenario della Rivoluzione d’Ottobre, abbiamo lanciato un ciclo di approfondimento sul cinema sovietico. E mi piace, a questo proposito, ricordare che l’Anno si era aperto nell’aprile scorso proprio a Bari, in particolare al Bif&st, con la proiezione di ben quattro film di argomento gramsciano».

E dunque, professore, fra mostre, convegni, libri, film e il dilagare social del Gramsci-pop, cosa resta da fare a questo punto?
«Direi che cominciano ad esserci le condizioni per portare all’attenzione di un pubblico sempre più vasto i risultati dei nuovi studi. Il Gramsci che viene fuori dai confronti internazionali e dalle interpretazioni che se ne possono dare oggi è un altro rispetto a quello raccontato dalla tradizione. È un Gramsci globale, mondiale, percepito non più come l’intellettuale martire dell’antifascismo, bensì come il più grande pensatore politico del Ventunesimo secolo».

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