fallimento case di cura

Cassazione: se non ci fu mafia bisogna rifare il processo

BARI - Se una sentenza definitiva esclude l'esistenza di un’associazione mafiosa in un processo a carico di alcuni imputati, tale valutazione va estesa anche ad altri imputati accusati, in un altro processo, di appartenere alla stessa associazione. Sono queste in sostanza le motivazioni con cui nel dicembre scorso la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza di non luogo a procedere per prescrizione nei confronti di Paolo Biallo, ex manager delle Case di Cura Riunite, e del boss barese Savino Parisi, imputati in uno degli stralci del processo 'Speranza' sui presunti intrecci tra mafia, affari e politica nella sanità pugliese risalenti agli anni '90.

Nel processo principale 31 imputati sono stai assolti con sentenza irrevocabile nel 2009, mentre Biallo e Parisi, processati separatamente e accusati in concorso con l'imprenditore Francesco Cavallari, non sono mai stati giudicati nel merito perché i reati erano prescritti prima ancora che iniziasse il processo. «L'intervenuta assoluzione dei coimputati - si legge nelle motivazioni della Suprema Corte - è di per sé un dato oggettivo che mina alla radice la stessa configurabilità in fatto e in diritto della ipotesi di accusa, non essendo stata riconosciuta l’esistenza della compagine associativa».

«La scelta della Cassazione è molto semplice - commenta il difensore di Biallo, l’avvocato Francesco Paolo Sisto - se vi è una sentenza definitiva che ha dichiarato la insussistenza di un reato associativo, la stessa insussistenza deve valere per tutti, senza inspiegabili eccezioni. In pratica, la Cassazione ha sponsorizzato puntualmente le tesi della difesa».
Questa sentenza potrebbe riaprire anche la vicenda processuale che coinvolge Cavallari, il quale nel 1995 aveva patteggiato per questi fatti una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa, falso in bilancio e corruzione e che ha chiesto la revisione del processo, attualmente pendente in Cassazione.

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