Coronavirus
Quando tutto sarà finito: ritratto del sindaco di Cellamare sfinito dopo una giornata da soccorritore
Mascherine, cori dai balconi e conta dei morti. E le foto degli eroi
Quando tutto sarà finito... Chissà quante volte lo abbiamo ripetuto o lo abbiamo ascoltato. Chissà quante volte abbiamo anche letto queste parole sfogliando di nascosto le pagine dei diari dei nostri figli che tra una dad ed una stiratina, in questi giorni difficili hanno (finalmente) ritrovato il piacere di annotare i loro pensieri su un pezzo di carta.
Che cosa farò io, però, è poco importante. Il mio disagio non è niente in confronto al dolore vero che stanno vivendo altri. Penso a quelli che hanno perso i loro cari, a coloro che non hanno neanche avuto la possibilità di salutare per l’ultima volta un parente, un amico, un genitore, un nonno.
Certo, quando tutto sarà finito saremo profondamente cambiati. E non solo perché molti, spinti verso le soglie di povertà, si vedranno costretti a concentrarsi sull’essenziale. Probabilmente ne usciremo migliorati almeno per un po’ («Ai posteri l'ardua sentenza») perché l’uomo, è risaputo, per vivere ha anche bisogno di dimenticare: un’eccessiva memoria, con i suoi dolorosi ricordi, con i suoi rimpianti e con i suoi rancori, non è una buona compagna.
Riflettiamo: la nostra generazione è stata la prima nella storia del Pianeta Terra a vivere senza guerra, almeno in Europa. Nati senza conoscere la minaccia, non ci siamo mai dovuti preoccupare.
Negli Usa questo «trauma» è arrivato in quel ferale 11 settembre. Qui qualcosa si è spezzato adesso.
La Covid passerà. L’incertezza e la paura, resteranno. Anche perché il virus, nessuno può negarlo, potrebbe tornare diverso a ogni inverno. Ciò che oggi è emergenza, diventerà la norma? Chi lo sa…
Un abbraccio, un bacio, una chiacchierata seduti al tavolino di un bar, non saranno più la stessa cosa di prima.
Sì, è vero. Il cervello per sua natura modifica e cancella i ricordi peggiori ma difficilmente potrò e potremo dimenticare le immagini del corteo di mezzi militari con le bare dei bergamaschi morti per il coronavirus che lascia la città. Non dimenticherò neanche facilmente i cori dai balconi, le attese per la lettura dei nuovi Dpcm in Tv, gli appelli a indossare la mascherina e mantenere la distanza di sicurezza, la foto di Gianluca Vurchio, sindaco di Cellamare, ma anche soccorritore del 118. La sua è una foto emblematica, seduto davanti al portellone di un’ambulanza, bardato e «sfinito» da un turno di lavoro «stremante». Il tempo necessario per recuperare un poco di energie e tornare in prima linea, a combattere il coronavirus.
Così come non dimenticherò facilmente, e probabilmente come me tantissimi altri, un suono che oramai, ahimè, è diventato spaventoso e tragico nelle nostre giornate immobili: il sibilo delle sirene che, ad ogni ora, squarcia il silenzio irreale che stiamo vivendo. E con quel sibilo, sale l’angoscia.
Ogni volta il pensiero è lo stesso: «Un altro contagiato, un’altra persona grave». E l’ansia sale.
In questi giorni le sirene sono tante. Prima le sentivamo meno o non ci facevamo caso mentre eravamo affaccendati nel lavoro, a fare jogging o a giocare a calcetto, al bar con gli amici o in fila al botteghino per goderci un film al cinema o uno spettacolo al teatro.
Ora abbiamo anche imparato a sintonizzare le nostre frequenze personali su altre frequenze. Abbiamo anche imparato a distinguere la sirena di una pattuglia da quella dell’ambulanza o dei vigili del fuoco. Abbiamo imparato a puntare gli occhi verso il cielo per seguire gli elicotteri del pronto soccorso, destinati chissà dove.
Quando tutto sarà finito, molti avranno imparato a togliersi la maschera indossando la mascherina, dimostrando il lato più sensibile del proprio carattere. Rispolverando vecchi ricordi lasciati in un cassetto o in un armadio.
Ma soprattutto, quando tutto sarà finito, saremo profondamente cambiati ed avremo imparato ad assaporare il silenzio, la solitudine, il vuoto interiore, che difficilmente scorderemo per il resto della nostra esistenza.