Nel Foggiano
Sei anni dalla strage di San Marco in Lamis, vedova Luciani: «Si va avanti lottando contro le ingiustizie»
Così Marianna Ciavarella, vedova di Aurelio che fu ucciso con suo fratello Luigi il 9 agosto del 2017, perchè testimone dell’omicidio del boss garganico Mario Luciano Romito e di suo cognato Matteo De Palma
SAN MARCO IN LAMIS - «Sei anni di mancanza, di abbandono, di riflessione, di rabbia. Quest’anno la mia bambina intraprenderà il primo anno delle scuole elementari, una tappa importante ma segnata anche dall’assenza del padre». Così Marianna Ciavarella, vedova di Aurelio che fu ucciso con suo fratello Luigi il 9 agosto del 2017 nella strage di San Marco in Lamis, in provincia di Foggia, perchè testimone dell’omicidio del boss garganico Mario Luciano Romito e di suo cognato Matteo De Palma.
Oggi Ciavarella ha partecipato alla messa celebrata da don Luigi Ciotti, presidente dell’associazione antimafia Libera, in occasione del sesto anniversario della morte dei due fratelli agricoltori in quella che è nota come la strage di San Marco In Lamis.
«Si va avanti - ha aggiunto Ciavarella - sempre con tanto dolore. Si accetta l’accaduto senza arrendersi per trovare la spinta per andare avanti, lottando ogni giorno contro ogni forma di ingiustizia affinché tutto questo non accada mai più. In questi anni abbiamo lottato e continueremo a farlo nonostante Aurelio e Luigi non ritorneranno mai più».
«Questo - ha concluso - è un giorno in cui si vive il dolore che ti penetra dentro ogni giorno e vorresti scappare da questa realtà, invece l’affrontiamo insieme a voi e ai nostri familiari affinché i nostri angeli non vengano dimenticati».
In occasione del sesto anniversario della morte dei fratelli Aurelio e Luigi Luciani, uccisi il 9 agosto del 2017 a San Marco in Lamis perché testimoni di un agguato, la moglie di Luigi, Arcangela Petrucci, ha scritto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «Dalle mie parti - scrive - nonostante quello che è successo e che continua a succedere, c'è ancora chi minimizza o addirittura nega l'esistenza della criminalità asserendo che è una pura invenzione di magistrati e forze dell’ordine a cui va tutta la mia stima, solidarietà e sostegno per tutto il lavoro che svolgono, spesso sotto organico e con pochi mezzi a disposizione». «Ma questo minimizzare la presenza della mafia - prosegue - ho notato con grande dispiacere che non è circoscritto solo al mio territorio. Spesso si viene accusati di infangare il nostro Paese. La nostra meravigliosa Italia, come lei ben sa, è una terra ricca di arte, di cultura di eccellenze, non è una terra mafiosa. Però in Italia la mafia esiste, distrugge e brutalizza tutto ciò che tocca. E chi sporca l'immagine della nostra bella Italia sono i mafiosi, i corrotti, coloro che pensano che con la prepotenza e la violenza possono ottenere tutto quello che vogliono, non chi quotidianamente denuncia tutta la sporcizia che ci circonda».
«Alle volte - prosegue - penso che l’unico diritto che si ha è quello di piangere i propri cari che non ci sono più. Perché, presidente, chi esprime una propria opinione, parere, consiglio, dubbio o perplessità, diversa da chi di volta in volta ci governa, viene messo alla gogna, magari sui social, cosa che penso succederà anche a me dopo questa lettera. Però, cascasse il mondo, 'Prima gli italiani' o 'Gli italiani sono i nostri datori di lavoro'. Quanta ipocrisia!».
«La cosa più triste - rileva - è che a volte a lanciare una campagna di odio contro qualcuno è proprio chi dovrebbe rappresentarci, tutelarci, sostenerci e dare il buon esempio. Mi creda, signor presidente, letteralmente 'offrireì la mia vita se mio figlio (che all’epoca della tragedia aveva solo 11 mesi) oggi potesse trascorrere un solo giorno con suo padre, per raccontargli il suo primo anno di scuola, andare insieme in bici, assaporare un suo abbraccio e anche se per una volta soltanto potesse guardarlo negli occhi e chiamarlo 'papà'».
«Presidente Mattarella - conclude la vedova - sono così stanca, negli ultimi sei anni mi sembra di aver vissuto così tante vite che a volte non so più io chi sono e cosa devo fare. Ma oggi ancora una volta ad alta voce chiederò verità e giustizia per i miei cari e senza nessuna esitazione ribadirò ciò che anni fa è stato detto da Peppino Impastato: 'La mafia è solo una montagna di merda'».
Assessore regionale Barone: «Abbiamo il dovere di non dimenticare la strage S. Marco in Lamis»
«La morte di Luigi ed Aurelio Luciani è una ferita aperta per la provincia di Foggia. Abbiamo il dovere di non dimenticare questi due fratelli, uccisi dalla mafia perché testimoni scomodi di un duplice omicidio. La loro unica colpa è stata quella di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato mentre erano a lavoro nei campi come tutte le mattine». Lo dichiara l’assessora regionale al Welfare, Rosa Barone, ricordando il duplice omicidio di San Marco in Lamis, nel Foggiano, avvenuta sei anni fa.
«Quel 9 agosto del 2017 - aggiunge - l’Italia intera ha preso coscienza della mafia foggiana e di quanto potesse essere crudele. Nessuno ha più potuto far finta di niente e minimizzare questo fenomeno, come era successo fino a quel momento. La guerra alla mafia ha cambiato passo e lo Stato ha fatto sentire in maniera forte la sua presenza. Oggi il nostro pensiero va alle vedove dei fratelli Luciani e ai loro cari, al figlio di Luigi che ha perso il padre quando aveva solo 11 mesi e alla figlia di Aurelio. Come rappresentanti delle istituzioni abbiamo il dovere di educare alla legalità le giovani generazioni e lavorare a un cambiamento culturale nella società. Ognuno di noi è un tassello importante nella lotta alla mafia, anche nei gesti quotidiani. Come Don Ciotti ci ha spiegato più di una volta, la mafia si alimenta dell’indifferenza. Dobbiamo - conclude - far capire ai cittadini che non sono soli, far sentire alla gente perbene che lo Stato è più forte. Solo così potremo onorare realmente la memoria dei fratelli Luciani e di tutte le vittime innocenti delle mafie».