L'analisi

La frase di Albanese e quegli eccessi di paternalismo medico

Pino Donghi

«Se una persona ha un tumore, non va a farsi fare la diagnosi da un sopravvissuto a quella malattia ma da un oncologo»

«Se una persona ha un tumore, non va a farsi fare la diagnosi da un sopravvissuto a quella malattia ma da un oncologo». Nel commentare l’autocommento con il quale la relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei territori palestinesi, Francesca Albanese, ha giustificato la sua scelta di abbandonare la trasmissione televisiva In Onda su La7, parlerò d’altro, come a volte capita a chi vuole sottrarsi da una discussione che lo imbarazza: sicché non sono imbarazzato e certamente ho una mia opinione su quello che sta accadendo in Medio Oriente, ma non posso esibire competenze che la giustifichino oltre il perimetro di una discussione tra parenti, amici o conoscenti. Meno che mai, approfittare dell’ospitalità di un quotidiano nazionale.

Di comunicazione scientifica e di relazione medico-paziente, invece, mi interesso da una vita professionale e mi sembra utile approfondire l’affermazione della dott.ssa Albanese. Che, a prima lettura, appare più che condivisibile ma che esprime - immagino senza alcuna consapevolezza - un’immagine della medicina e del rapporto tra medico, malattia e paziente che faticosamente si sta cercando di superare. Nel tradizionale, e per qualcuno ancora rassicurante, rapporto «paternalistico» con il proprio medico, quest’ultimo diagnostica e poi propone la terapia più efficace per guarire il paziente sconfiggendo la malattia. Nello studio medico la differenza di competenze è definita (ad eccezione di un paziente a sua volta medico, s’intende) e la scelta sul da farsi consegue: fino a non molti anni fa, si assisteva ad una sorta di trasmissione della potestà sul proprio corpo nelle capaci mani del medico.

Di Oliver Sacks, il grande neurologo scomparso giusto dieci anni fa, parafrasando il titolo di uno dei suoi saggi di grande successo, qualcuno ebbe a dire che aveva «scambiato i suoi pazienti per una carriera letteraria»: a dir poco ingenerosamente. La novità (!), è che Oliver Sacks i pazienti li ascoltava, ovvero considerava il valore della percezione soggettiva della patologia di cui erano, presumibilmente, affetti. Bene l’esame obiettivo, necessari i valori fisiologici, fondamentali gli accertamenti strumentali, ma conta anche il vissuto del paziente, giacché è lui che dobbiamo curare. La cosiddetta «medicina centrata sul paziente», in luogo di quella diseasecentred, negli ultimi decenni ha provato a ricordare l’ovvietà per cui non si cura «il diabete» ma «un diabetico», che la variabilità di ogni singolo individuo non può non incidere sulla definizione del percorso che, dalla manifestazione dei sintomi, alla probabile diagnosi, alla migliore terapia possibile, porta il paziente ad una condizione di ritrovata salute: l’accezione più utile di «consenso informato», consegue da questa nuova e originale centralità del malato, il cui condizionamento emotivo deve necessariamente essere considerato al fine della migliore compliance, specialmente quando questa comporta un percorso terapeutico di sofferenza. Insomma, come un po’ per tutto, è la complessità che bisogna affrontare rifuggendo dalle semplificazioni, a maggior ragione dalle metafore fuorvianti.

Una persona, per altro, non ha un tumore, non sa di averlo prima di ricevere una diagnosi: va dal medico perché qualcosa nel suo corpo non funziona, perché ha dolore o avverte un non precisato disagio: nello studio medico porta una domanda, non va a farsi fare una diagnosi precostituita. E in precedenza, è più che probabile si sia confrontato con qualcuno che è passato per un’esperienza simile. Il processo non è lineare e al definitivo accertamento si arriva attraverso molti passaggi, fino a quelli «specialistici», ognuno dei quali è enormemente facilitato dall’ascolto del paziente, per quanto incompetente e - ci mancherebbe! - emotivamente coinvolto. L’immagine di un malato che, in silenzio, osserva il medico trafficare con il suo corpo, infine ricevendo l’infausto oracolo, appartiene ad una visione della medicina ancora molto praticata, ciò nonostante imperfetta, migliorabile e negli ultimi anni molto arricchita, proprio dall’ascolto del malato.

Che poi, il medico - come il Giudice - sia sempre imparziale e lucido… non si tratta di cedere all’ovvietà per cui «siamo tutti umani», ma nel giudizio e nella diagnosi pesano le esperienze passate: in bene, nel senso dell’esperienza, qualche volta però anche confondendo l’occhio clinico, usandolo in maniera imprecisa o troppo automatica, sovrapponendo un caso già risolto su uno tutto da investigare.

Metafora per metafora, non so (non lo so veramente, non si tratta di un artificio retorico) quanto queste riflessioni possano diversamente illuminare quella usata da Francesca Albanese, che nel frattempo si è misurata anche con un nuovo-vecchio stereotipo, tra laboriosità meneghina e rilassata napoletanità, suscitando una nuova polemica sostenuta da uno scambio di irriducibili interpretazioni: per lei un semplice e innocente «pizzico», per gli altri una vecchia e inaccettabile «offesa». Sicché, come sanno gli studiosi del linguaggio - quando si è un personaggio pubblico, vanno coltivate anche le competenze comunicative - l’interpretazione è a carico del lettore, il Lector in fabula di Umberto Eco: più o meno «modello». E al lettore, come al paziente, bisogna dare fiducia e, ci mancherebbe, l’ultima parola.

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