L'analisi

Agricoltori pugliesi, dall’emancipazione alla «fanteria di piazza»

Domenico Santoro

Brutto. Non c’è altro modo per definire ciò a cui la Nazione intera ha assistito durante l’ultima seduta del Consiglio regionale della Puglia

Brutto. Non c’è altro modo per definire ciò a cui la Nazione intera ha assistito durante l’ultima seduta del Consiglio regionale della Puglia. Non è stato solo un momento di tensione politica: è stato il simbolo vivente di una crisi profonda, trasformata in rabbia, che attraversa in pieno il mondo agricolo e che risale silenziosamente fino al cuore della società.

Chi conosce l’umiltà e la compostezza della nostra gente di campagna sa bene che scene del genere non nascono per caso. Sono l’eco lunga di una sofferenza accumulata, di frustrazioni che non si misurano solo nei prezzi sviliti dei raccolti, ma in anni di disattenzione strutturale, di silenzi e di politiche mancate. Campagne che si svuotano, borghi che si spengono, filiere produttive che si disgregano: un lento logoramento che tocca la carne viva dei territori. Le ultime sacche di bracciantato sono ormai sostenute in larga parte da manodopera migrante, spesso invisibile e sfruttata. Un fenomeno che non solo mortifica la dignità del lavoro agricolo, ma apre crepe profonde nel tessuto sociale, erodendo identità, comunità e coesione. È una morsa che stringe famiglie intere e mina le fondamenta della nostra società rurale.

Quella che abbiamo visto in Consiglio regionale non è una semplice protesta. È la fotografia nitida di un mondo agricolo trasformato in «fanteria di piazza», arruolata da una politica - da destra a sinistra - che ha smarrito la capacità di programmare e di guidare processi reali di sviluppo.

Intanto, il dibattito si consuma attorno a una questione tecnica: il contributo 630. Ma chi conosce davvero l’agricoltura sa che quel contributo andrebbe sospeso di default, finché non sarà operativo un serio sistema di difesa idraulica regionale. Quella cifra non è il problema. È la spia luminosa di un malfunzionamento più profondo: la mancanza di strategia politica.

Per comprendere l’entità di questo arretramento, basta guardarsi indietro. Negli anni della riforma agraria, la politica agricola era un progetto di emancipazione sociale e di progresso economico. Lo Stato interveniva direttamente: costruiva infrastrutture, bonificava terreni, distribuiva mezzi di produzione, offriva credito agevolato e assistenza tecnica. Quella stagione restituì dignità, reddito e fiducia nel futuro a intere fasce della popolazione contadina. Oggi la scena è capovolta. La regia politica si è ritirata, lasciando spazio alla logica asettica dei piani europei, fatta di bandi frammentati, procedure complesse, rendicontazioni ossessive e una governance multilivello che paralizza la capacità decisionale.

Laddove un tempo c’era una visione nazionale capace di trasformare risorse in opere e capacità produttiva, oggi abbiamo una macchina amministrativa che distribuisce incentivi, ma non costruisce futuro. Le misure europee, per quanto importanti, sono diventate il fine e non il mezzo. Questo slittamento ha scavato un vuoto strategico che la politica tenta di riempire cavalcando il malcontento anziché governandolo.

L’agricoltore non è più protagonista di un cambiamento, ma figura evocativa da esibire, fanteria di piazza utile per ottenere consenso e visibilità. Eppure, proprio da questa crisi può nascere una nuova stagione. Perché la storia agricola di questa terra ci insegna che quando lo Stato e le comunità si incontrano, nascono progetti veri, capaci di generare sviluppo duraturo.

Servono piani idraulici moderni, una regia unica regionale, investimenti in conoscenza, formazione e filiere di qualità, una visione che torni a mettere la terra al centro del progetto di società. Servono politiche che non si limitino a contare ettari e contributi, ma che diano senso, prospettiva e orgoglio a chi lavora la terra ogni giorno. Chi vive della terra non ha bisogno di megafoni, ma di strade per crescere. E noi tutti, oggi più che mai, abbiamo bisogno di una politica capace di guardare lontano, di scegliere, di costruire. Perché se torniamo a seminare visione, la terra - come sempre - saprà restituirci futuro.

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