l'analisi
Caro Vespa, sui Paesi sicuri la Corte europea ha solo ribadito l’ovvio
Ho letto con interesse l’intervento di Bruno Vespa sulla sentenza della Corte di giustizia. Un poco di chiarezza
Ho letto con interesse l’intervento di Bruno Vespa sulla sentenza della Corte di giustizia. Un poco di chiarezza. La legge italiana prevede che le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale siano semplificate se i richiedenti provengono da Paesi sicuri (per i quali si presume non ci siano pericoli di persecuzione). La lista dei Paesi sicuri la decide il Governo. Si è posta la questione se è sufficiente che un Paese sia definito sicuro o serve che, nel caso concreto, nel contraddittorio delle parti e sentiti gli avvocati, sia un giudice a valutare se, per quel particolare soggetto, un Paese sia effettivamente sicuro. Può darsi che un Paese, sicuro per un musulmano maschio, non lo sia per una atea donna lesbica; può darsi che un Paese sicuro per la grande maggioranza dei cittadini, perseguiti invece minoranze religiose, etniche, politiche. Chi è parte di queste minoranze, e perciò è perseguitato, può chiedere di essere protetto in Europa? Chi lo decide?
Le corti italiane ed ora anche la Corte di giustizia della Unione Europea hanno ribadito l’ovvio. Le regole generali (la lista dei Paesi sicuri) le decidono i Parlamenti; i casi concreti, anche con le eccezioni alla lista, li decidono, su ricorso degli avvocati, i giudici. Una decisione banale che però il, pur sempre cauto Vespa, definisce sconcertante. Addirittura, Bruno Vespa si preoccupa che i giudici vogliano fare la politica internazionale, al posto del Governo. Preoccupazione suggestiva ma infondata. La politica internazionale riguarda i rapporti fra Stati e governi nazionali. Qui si parla invece di diritti fondamentali delle persone, di essere umani perseguitati, di decidere se i singoli vadano o meno protetti. Si parla dunque di questioni che, in tutte le democrazie liberali, sono affidate ad avvocati e giudici.
Molti parlano di esondazione del potere giudiziario. I giudici italiani decidono quel che spetterebbe solo alla politica decidere. Ed anche qui pare che, piuttosto che ragionare della questione, si voglia delegittimare la avvocatura e la magistratura italiana.
Ogni giorno, in ogni aula, avvocati e magistrati discutono della applicazione concreta di regole generali ed astratte. Finito di scrivere alla Gazzetta, tornerò a studiare un processo nel quale si discute se un tizio trovato in possesso di 10 grammi di cocaina sia colpevole o meno. La politica decide che è reato detenere droga per venderla ad altri. A me giudice, sentiti gli avvocati, esaminato il fatto in concreto, tocca decidere se questo Tizio deteneva la droga per consumarla o per cederla ad altri.
Non è esondazione del potere giudiziario, ma quotidiano esercizio della separazione dei poteri: il Parlamento detta le regole, il Governo le esegue, i Giudici verificano come applicarle al caso concreto.