L'analisi
Ilva appesa a un filo, ma Taranto non merita di morire due volte
Nella lunga e tormentata storia della siderurgia pubblica italiana - e sia concesso dirlo senza retorica - non era mai successo che tutti e cinque gli altiforni dello stabilimento a ciclo integrale di Taranto si fermassero contemporaneamente
Nella lunga e tormentata storia della siderurgia pubblica italiana - e sia concesso dirlo senza retorica - non era mai successo che tutti e cinque gli altiforni dello stabilimento a ciclo integrale di Taranto si fermassero contemporaneamente. Neppure nei momenti più cupi, tra commissariamenti, crolli di mercato, esplosioni, sequestri giudiziari e colpi di teatro politici. E invece, è successo.
L’ultimo a cedere è stato l’Altoforno 4, quello che - di riffa o di raffa - garantiva ancora una minima produzione: circa due milioni di tonnellate d’acciaio l’anno. È stato fermato per lavori di rifacimento del refrattario interno. Ufficialmente, pochi giorni. Ma nel frattempo, la produzione è «zero spaccato». L’Afo1 è fuori uso da tempo, sotto sequestro giudiziario, dopo l’incendio causato dalla rottura della tuberia; Af2 è fermo, Af3 è stato dismesso, Af5 è un ricordo lontano. L’acciaieria pubblica sta dando l’anima a Dio. E con essa si avvicina la vittoria di quanti, da anni, chiedono la chiusura definitiva dello stabilimento senza però fornire uno straccio di alternativa.
È facile invocare il «the end» del film horror dell’acciaio pubblico. Difficilissimo, invece, costruire una visione industriale, un New Deal occupazionale, un piano di rilancio serio per l’intera area ionica. Ironia della sorte, qualcuno continua a gettare anche il bambino con l’acqua sporca. Intanto, da giorni circola un tourbillon di notizie, voci incontrollate, fake news ben confezionate. Si rincorrono nomi di compratori veri o presunti, piani A e piani B, minacce velate e pressioni istituzionali. Sembra che - qualora le istituzioni tarantine e pugliesi rifiutassero l’attracco della nave rigassificatrice - potrebbe saltare l’offerta del gruppo azero Baku Steel Company. D’altro canto, una nave rigassificatrice non si può pretendere che stia, - si fa per dire - fuori dalle acque territoriali. Bisogna sempre comprendere i rischi e i benefici.
Ma esiste ancora un contatto formale con Baku? Il sospetto è legittimo: l’azienda compare e scompare come nei giochi delle tre carte. Lo stesso vale per Jindal, per il fondo americano Bedrock, per la nebulosa galassia dei potenziali acquirenti. Il ministro Adolfo Urso, anziché fare chiarezza, si rifugia nel gioco del cerino acceso, scaricando responsabilità sugli enti locali e sulla Regione Puglia. Eppure, da una recente nota stampa, si apprende che il commissario straordinario in A.S., Giovanni Fiori, è volato negli Stati Uniti per incontrare il Ceo di Bedrock. Ma cosa significa? C’è davvero un’offerta sul tavolo? Ci sono condizioni, tempi, risorse? Oppure è l’ennesima pantomima per guadagnare tempo e confondere le acque?
Nel frattempo, alcune testate soprattutto del Nord danno per spacciato lo stabilimento di Taranto. I titoli sono eloquenti: «Taranto come Bagnoli», «Il deserto industriale del Sud», «Una città affossata dalla politica pugliese». Il dito è puntato contro il Comune, contro il presidente Michele Emiliano, accusati di essere i registi degli «ultimi giorni» della capitale italiana dell’acciaio. C’è nell’aria un profumo antimeridionale, che si potrebbe evitare. Ironia nella tragedia: mentre si arresta il cuore pulsante della siderurgia pubblica, a Genova si prepara il trapianto. Due città con destini incrociati e, per dirla con Paolo Conte, «Eppur parenti siamo un po’ di quella gente che c’è lì». Laddove per decenni si è cercato di smantellare l’area a caldo di Cornigliano, oggi, si sogna di ricevere gli impianti Dri (Direct Reduced Iron), alimentati a gas Snam. Genova, ex città delle Partecipazioni Statali, diventa la «nuova frontiera» della decarbonizzazione siderurgica. Così almeno raccontano i giornali «ben indirizzati». Eppure, nel settembre 2022, Invitalia scriveva che Dri d’Italia - la newco pubblica - avrebbe avuto il compito di decarbonizzare l’ex Ilva di Taranto, realizzando impianti per la produzione di preridotto, con minore impatto ambientale.
Oggi, tutto ciò appare sospeso. O peggio: spostato. A Novi Ligure, a Cuneo, altrove. E Taranto? Sarebbe ridotta a un involucro vuoto, uno scheletro industriale. Un brutto remember. Ma almeno - se proprio di smantellamento si deve parlare - lo si faccia costruendo un nuovo orizzonte. Perché Taranto non può morire due volte. È bene ricordare che esistono due grandi cicli produttivi dell’acciaio. A Taranto si adotta quello a ciclo integrale, dove il minerale ferroso e il coke vengono fusi negli altiforni a circa 1.400 gradi, sprigionando CO2 e producendo ghisa liquida. Questa, trasportata nei treni-silos, alimenta le acciaierie, dove viene convertita in acciaio insieme a rottami metallici. Da qui si ottengono bramme, coils, tubi, lamiere. Il ciclo Dri, invece, si basa sulla riduzione diretta del minerale con gas naturale. Meno emissioni, meno impatto, ma anche una produzione «secondaria» e più fragile - almeno sul piano dell’autonomia industriale.
In concreto, il preridotto serve nei forni elettrici al posto del rottame e può essere prodotto dal minerale e dal gas naturale, utilizzati insieme in appositi impianti. Il rottame è una risorsa limitata, e dunque se si vuole aumentare il numero dei forni elettrici nel mondo, bisogna garantirsi una fornitura stabile di preridotto. Oggi si rischia non solo la chiusura di un impianto, ma l’estinzione di un modello di sviluppo. Dopo la chimica, anche la siderurgia sembra destinata a scomparire.
E allora, che fare? Taranto non può più permettersi soluzioni tampone. Serve un progetto-paese. Serve un piano strutturale, finanziario, infrastrutturale. Hardware e software. Cultura, formazione, industria. Visione. E dignità. Perché Taranto non sia costretta, ancora una volta, a essere vittima di se stessa e delle forze esogene sempre pronte a intervenire, come se fosse acefala.