il problema

Quei ragazzi di Galatina contro un disabile e l’assenza di educatori

Fabiana Pacella

Ai giudici il giudizio, agli investigatori le indagini, ma noi, adulti nelle comunità, dove siamo finiti?

La parola legalità ricorre con esagerata frequenza nel nostro quotidiano. Soverchia talvolta e talvolta stucchevole come il pistacchio su troppe pietanze. Le parole sono importanti, diceva qualcuno, non portano ossa ma rompono le ossa, diceva mia nonna. E allora andando alle radici di questa parola, del suo significato più intrinseco, mi viene da associarla ad un’altra: comunità.

Perché dove non c’è senso di comunità, la legalità scricchiola e può addirittura deflagrare. Una premessa, per arrivare a due – di tanti - episodi di cronaca che mutano in allarme sociale.

In Puglia, a Galatina, sono stati arrestati cinque minorenni. Cinque ragazzini, nel fiore del loro tempo, violenti, crudeli, tanto da aggredire, picchiare, offendere, ricattare, perseguitare, un coetaneo disabile. E qualche giorno prima, in Campania ad Afragola un orrore ancora più grande: un’adolescente uccisa a 14 anni dalla fidanzatino per averlo lasciato.

La legge ha fatto il suo corso. È un fatto. Ma la legalità comunità dov’era? Dov’è?

Non possiamo nasconderci dietro l’abusata idea di perdizione delle nuove generazioni, né pensare a schegge impazzite che esplodono all’improvviso nelle nostre realtà sonnecchianti, perbeniste e giudicanti.

Ai giudici il giudizio, agli investigatori le indagini, ma noi, adulti nelle comunità, dove siamo finiti?

Perché no, non è affare solo di quei ragazzi e delle loro famiglie, è affare che riguarda ognuno di noi nessuno escluso. Quando fingiamo di non vedere, di non capire, quando ci giriamo dall’altra parte, dribbliamo fratture e discussioni, ci scansiamo sperando che la pioggia di fango non copra i tetti dorati delle nostre case e gli abiti lindi nei nostri figliuoli.

In Salento sapevano tutti, sapevano gli adulti, come emerso dalle carte ufficiali, di quella baby gang di ragazzi e ragazze che facevano paura non solo ai coetanei. Che maneggiavano pistole giocattolo, picchiavano, bullizzavano… ma non si hanno tracce di azioni concrete, levate di scudi, richiesta di intervento prima di quella deflagrazione.

E questo è grave, ancor più grave leggendo le parole del procuratore per i minori di Lecce Simona Filoni: «A dispetto della giovanissima età le personalità espresse dai minori arrestati appaiono già pericolosamente e radicalmente strutturate in senso deviato, connotate da anaffettività ed amoralità, ispirate dai disvalori della violenza e della sopraffazione dell’altro e totalmente sorda ai valori del rispetto dell’altro e della civile convivenza, appartenenti ad un contesto in cui appare totalmente fallito il sistema educativo familiare dimostratosi, nei fatti, totalmente incapace di trasmettere i valori del vivere civile del rispetto della persona e della dignità umana, nonché di controllare gli agiti dei figli oramai i giovani adultizzati e dediti ad un regime pericolosamente orientato in senso criminale».

Queste parole, vergate nero su bianco in un atto ufficiale, sanno di sconfitta. Degli adulti, prima ancora che di tutti i minori coinvolti. Di noi spesso, troppo spesso in cattedra a giudicare e pontificare, quasi mai dietro ai banchi per comprendere, ascoltare l’altro e ciò che ha da dire, soprattutto se si tratta di bambini, i ragazzi.

Che sono il frutto delle nostre scelte, dei nostri sì, dei nostri no, delle nostre assenze nella socialità a vantaggio dell’onnipresenza sui social e nei salotti di vanità a tempo. Non ho ricette, nessuno di noi immagino ne abbia, né posso giudicare. Ma fermarci a pensare seriamente al ruolo di educatori di ognuno di noi non è appuntamento differibile. E non è nemmeno tutto buio, nero, distruttivo come queste cronache raccontano.

C’è tanta bellezza, nelle scuole, nelle case, nelle piazze. Di minori che guardano al futuro con alto senso di libertà, che dialogano, includono, praticano con il brivido della speranza l’antimafia sociale. Senza orpelli, ma con un’arma di distruzione di massa: la bellezza e la virulenza della loro età.

Non è una missione impossibile, ma la conseguenza diretta della presenza, reale, al loro fianco. Che è fatta anche di no, che vanno spiegati. Di cadute dalle quali aiutarli a rialzarsi. Di voti brutti che si possono riparare, oggetti di valore che non crescono sugli alberi né colmano vuoti ma si guadagnano, con sacrificio e impegno. I ragazzi ci guardano, ci chiedono aiuto, come sanno, come possono. Anche deragliando.

Ma deragliano se i binari sono contorti, se il capostazione latita fermata dopo fermata. E leggere ovunque commenti violenti a seguito degli arresti dei responsabili di questi fatti di cronaca, è conferma ulteriore, qualora ve ne fosse bisogno, che la cultura dell’odio e del giustizialismo scavano la fossa in maniera definitiva.

«Bastardi» titola un giornale in riferimento ai fatti salentini. Quale «come» possiamo raccontare alle nuove generazioni? Perché è il come, che ci qualifica facendo la differenza.

Educare è il mestiere più complesso, non ci sono titoli di studio che abilitano. Si sbaglia, si ripara, si cade, ci si rialza. Ma è affare di tutti, senza deroghe, senza deleghe, senza sepolcri imbiancati dietro cui nascondere le nostre incapacità. Quei ragazzi sono finiti in carcere, in comunità penale, ma ce li abbiamo mandati un po’ tutti noi. Quando abbiamo abdicato al nostro ruolo, e scelto di non far conoscere loro il valore straordinario della libertà dell’anima.

È così che li abbiamo messi dietro le sbarre, privandoli anche di quella fisica.

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