il pensiero
La «febbre» della giustizia tra riforme sciagurate e ingerenze della politica
Un colpo di grazia alla Corte dei conti, ai controlli che la Nazione pretende, agli esempi di giustizia oramai offuscati dalla parzialità della politica
La società civile ha bisogno di comprendere cosa voglia fare e dove intenda arrivare la politica che ha l’onere di governare il Paese. Un obiettivo difficile da conseguire in rapporto al ri-concepimento dei tre poteri dello Stato. Proprio per questo motivo, riducendo l’indagine al minimo comune multiplo del problema, si è reso preferibile adottare la misura dei nonni per assumere conoscenza diretta, abituati al vis-à-vis. Al confronto fisico, nel caso di specie però immaginato, con i poteri dello Stato.
Dei tre poteri, quello che è maggiormente interessato a dire la sua è la magistratura. Da qui, la decisione di prendere un caffè con la Giustizia. Una iniziativa che l’ha trovata favorevole con l’impegno a discutere e narrare tutte la traversie che sta vivendo con l’attuale Governo del Paese.
Convincerla è stato difficile, ma proficuo. Ciò in quanto essa vive, naturalmente, la sindrome dell’accerchiamento da parte dei poteri forti, ai quali interessa sfuggire da essa ovvero di addomesticarla ben oltre la pretesa della volpe ne Il Piccolo Principe. Ha preteso tuttavia che le dessi anticipatamente gli argomenti sui quali intrattenerci. Io l’ho fatto e ci siamo dati appuntamento al classico bar Miramare noto, nel mio immaginario privato, per la produzione di un ottimo freddo shakerato.
Il primo tema riguardava lo stato dell’essere della Giustizia. L’esordio del confronto sul punto è stato duro, nel senso di assistere ad una critica amara riguardante una magistratura, nel suo complesso, spogliata dei numeri necessari ad esercitare le mission costituzionali, sia a causa di concorsi che si dilatano nel tempo che per l’esagerato impiego di giudici a tempo pieno nei regni amministrativi. Troppi i magistrati imboscati nelle stanze dell’Esecutivo, del Parlamento, delle Regioni e delle partecipate pubbliche. Un difetto italico talmente elevato che sono in tanti quei magistrati a non avere indossato da diversi decenni la toga requirente o giudicante nonché quella dei controlli sui conti.
Il secondo tema afferiva alla «riforma della magistratura». E qui la discussione è diventata accesa, piena di rabbia. Ciò a causa dell’incomprensibilità della decisione politica di separare lo storico, attraverso una legge costituzionale intesa a dividere la carriera dei giudici. A fare dunque due ruoli e due autogoverni ben distinti.
La ratio parte da una regola politica errata, che porta a complicare il tema della giustizia applicata: distinguere i giudici destinati al giudizio, vincitori degli stessi concorsi cui si accede alla opzione di fare il Pm, da quelli che lo provocano obbligatoriamente. Una divisione che appare senza una logica, dal momento che l’attuale esercizio non presenta alcuna falla di funzionamento, se non causata da intromissioni improprie della politica, che si arrabbia se il processo tocchi ai propri e ridacchia nel caso spetti agli altri. Ove mai, nell’assumere a valutazione oggettiva quanto accade tra attività requirente e quella giudicante, sorgono dubbi tutt’altro diversi da quelli apertamente dichiarati. Non sono troppe e ingiustificate le azioni delle Procure, è loro ineludibile obbligo esercitare l’azione penale. Ciò che è divenuto davvero esagerato è il numero delle assoluzioni, soprattutto di quelli che contano, dei quali nessuno a scontare pena. I motivi di questo disastro sono innumerevoli, alcuni dei quali riconducibili all’esercizio del potere politico nei confronti della magistratura giudicante, sino ad arrivare - e i casi noti non sono piccola cosa - a corruzioni vere e proprie. Le confessioni di Palamara docent.
Nessuna riflessione negativa risulta peraltro comprensibile nei confronti della magistratura requirente, se non quella di ricondurla al controllo del potere esecutivo, così come recitato per decenni negli ambienti sudamericani.
Il terzo tema ineriva alla magistratura dei controlli dei conti, quegli strumenti che non piacciono alla politica di tutte le direzioni e provenienze. La pretesa politica è generalmente quella di andare esenti da ogni responsabilità erariale ovvero, quantomeno, di cavarsela con pochi esborsi, accompagnando in un siffatto «parco della cuccagna» a goderne anche la burocrazia, facilitata così ad essere sempre più complice dei desiderata di chi nomina i dirigenti e revisori.
In tal senso, ci pensa il Ddl Foti, Barelli e De Corato (n. 1621), approvato alla Camera il 9 aprile scorso ampiamente emendato, oggi incardinato al Senato ove è rubricato al n. 1457. Nel suo testo è insediata una norma (art. 5) modificativa dell’art. 19 della legge 103/1979, che applica anche agli avvocati dello Stato la limitazione della responsabilità riservata al dirigente relativamente al danno erariale. Ciò è produttivo di un 30% del valore del medesimo e comunque ad una cifra non superiore a due anni del trattamento stipendiale in godimento dello stesso. Il tutto applicabile anche ai contenziosi in corso, se non arrivati a sentenza. Un colpo di grazia alla Corte dei conti, ai controlli che la Nazione pretende, agli esempi di giustizia oramai offuscati dalla parzialità della politica.