L'analisi
Il monito della consulta: l’Autonomia non serve per la spartizione di poteri
In un mondo pieno di tifosi prepotenti e di furbi arruffapopoli, i mezzi tendono tuttavia a sovrastare i fini, trascinando le esortazioni ragionevoli nel vuoto pneumatico e caotico della politica
Un monito risalta nel comunicato della Corte costituzionale del 14 novembre 2024 sull’Autonomia differenziata, come implementata dalla legge Calderoli del 26 giugno 2024 (n. 86): il riparto delle competenze tra Stato e Regioni non deve operare come mezzo per spartirsi il potere; deve invece essere attuato col fine «del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla Costituzione».
In un mondo pieno di tifosi prepotenti e di furbi arruffapopoli, i mezzi tendono tuttavia a sovrastare i fini, trascinando le esortazioni ragionevoli nel vuoto pneumatico e caotico della politica. Lo dimostrano le dichiarazioni di esponenti governativi e di opposizione. Qui l’esultanza del centrosinistra per la sostanziale bocciatura di una legge che, va pure ricordato, è figlia del mostriciattolo giuridico di cui all’art. 116 della Costituzione, come voluto e scritto dai predecessori sin dal 2001 con la famigerata riforma del Titolo V. Lì il giubilo del centrodestra intento a sottolineare non meglio indentificati «passaggi storici» (Luca Zaia) che, smentendo «dispensatori di fake news» (Attilio Fontana), confermerebbero «la legittimità della legge del giugno 2024» (Roberto Calderoli). Fanno venire in mente le ultime bêtises del miliardario morto di fama: incurante della logica giuridica e grammaticale, da oltreoceano si scaglia contro i giudici italiani trattando democrazia e popolo sovrano alla stregua dell’audience televisivo e dei like sui suoi social media.
La nota della Consulta sembra muoversi diversamente. Lo fa riaffermando una vecchia lezione di diritto costituzionale, per cui le singole disposizioni vanno interpretate sistematicamente. Vanno cioè lette alla luce e in coerenza con l’intero impianto della Costituzione, tavola genetica dell’ordinamento. Di qui la necessità di applicare l’art. 116 in modo restrittivo e sistematico, anche perché esso si prefigura come un’eccezione rispetto ai principi supremi della Carta del 1948.
Significa che è possibile trasferire ulteriori competenze alle Regioni, ma si deve sempre tenere conto dei pilastri normativi su cui si regge l’ordine costituzionale italiano. A cominciare da quelli afferenti all’eguaglianza, all’unità della Repubblica, alla centralità del Parlamento, alla sussidiarietà, all’equilibrio di bilancio, al bisogno impellente di coesione economica e territoriale. La legge n. 86/2024 porta invece a invertire i fattori: l’eccezione sovrasta la regola e il sistema costituzionale passa in secondo piano rispetto ai precetti dell’art.116 come intesi e spiegati dall’attuale maggioranza. Diventano così più chiari i profili di incostituzionalità evidenziati nel lungo comunicato delle Consulta.
Il primo fa riferimento al trasferimento delle competenze per materie, che nella legge Calderoli è ampio e generico, quando invece la Corte rinvia a una forma di devoluzione determinata in base a specifiche funzioni e in relazione alla singola Regione, in ossequio al «richiamato principio di sussidiarietà». Ciò si raccorda con le censure avanzate in merito ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep): dovendo essere assicurati su tutto il territorio nazionale, non possono essere fissati senza «idonei criteri direttivi», tanto più che, limitando il ruolo del Parlamento, la decisione è in questo ambito rimessa sostanzialmente «nelle mani del Governo». Si aggiunga che la legge dell’autore del fu Porcellum attribuisce la fissazione e l’aggiornamento dei Lep ad atti amministrativi, ossia ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (Dpcm), tanto criticati da Giorgia Meloni quand’era all’opposizione.
Lo stesso si dica della possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite in caso di scostamento tra fabbisogno di spesa regionale e andamento del gettito. Un meccanismo, questo, che non può limitarsi alla spesa storica né tanto meno premiare le Regioni inefficienti: quelle che, dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle competenze trasferite, non sono poi in grado di assicurare con quelle risorse l’adempimento delle relative funzioni. Da cui il richiamo agli obiettivi di finanza pubblica, che non possono essere garantiti con una generica «facoltà» da parte delle Regioni destinatarie di un maggior grado di autonomia.
Al contrario, è opportuno assoggettare gli enti regionali ai «doveri» di solidarietà e unità della Repubblica, tenendo conto degli «andamenti del ciclo economico e del rispetto degli obblighi eurounitari». Il che si allinea con le considerazioni della Consulta sulla distinzione tra «materie Lep» e «materie no-Lep»: se il legislatore qualifica una materia come non-Lep, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni riguardanti diritti civili e sociali. Ragione per la quale le proposte di legge con cui vengono trasferire le funzioni non possono essere indissolubilmente legate alle intese tra Governo e Regioni.
Non si può cioè costringere il Parlamento a «un prendere o lasciare» i contenuti di queste intese, senza che in sede legislativa abbia la possibilità di emendarle.
Su tali indicazioni dovrà ora intervenire la politica. Nell’esercizio e nei limiti della sua discrezionalità, dovrà farlo a seguito della pubblicazione della sentenza, cercando di colmare i vuoti ivi considerati in modo da garantire la «piena funzionalità» della legge 86/2024. Una legge che, come avevamo notato sulle pagine di questo giornale (6 agosto 2023 e 9 luglio 2024), non brilla certo per chiarezza espositiva e coerenza costituzionale. Motivo per cui nel comunicato del 14 novembre la Consulta tiene a precisare che resta competente a vagliare sulla costituzionalità dei futuri innesti parlamentari al manufatto calderoniano e delle singole leggi di autonomia differenziata. In parallelo occorrerà chiarire - spetta in prima battuta alla Corte di cassazione - se i pezzi residui della legge del giugno 2024 possano essere sottoposti a referendum abrogativo, come elaborato e richiesto dai partiti di opposizione in base all’art. 75 della Costituzione.
Insomma, i posteri diranno se questo tassello della storia normativa italiana, uscendo dalle solite logiche dei pollai mediatici e dei cinici interessi elettorali, sia capace di solcare sentieri intellettualmente decorosi e costituzionalmente tollerabili.