la riflessione
Khelif, nell’era dei social dalle regole di un ring si passa ai diritti intersex
La vita è complessa, molto più complessa delle regole olimpioniche, delle gare classificate, delle pari condizioni di peso, altezza, chili, cromosomi, muscoli e timer
Il grido delle donne. Imane Khelif, campionessa, ha sulle spalle la bandiera del suo Paese, l’Algeria. Piange a dirotto, di gioia, per il «riscatto» della vittoria, ottenuta a suon di sport (la boxe) dopo giorni di polemiche, invettive internazionali, incontri diplomatici, confronti al vertice tra capi di Governo e Comitato olimpionico su un tema: la sua vera natura sessuale, il suo autentico genere, se fosse bianca come i lindi water per donne nei locali pubblici o nera come quelli destinati agli uomini. Insomma, come classificare questo strano essere intersex di campione olimpionico?
Imane è quello che in Italia la stragrande maggioranza della popolazione, se fosse italiana, definirebbe una «patriota». Ma ha un problema: ha un livello di testosterone più alto di quello che normalmente possiedono le donne. E lei gareggia lì, nella boxe femminile, non alla gara di quartiere cui avrà partecipato mille volte nella sua tormentata vita ad Algeri, ma alle Olimpiadi 2024 di Parigi. Ha un aspetto impressionante per i canoni di femminilità che chiunque nel mondo occidentale possa immaginare. I muscoli sulle braccia sono quelli di Nino Benvenuti, che le Olimpiadi le vinse a metà degli anni ’60. Cattolico, bianco, italiano, sorridente come una pubblicità di un dentifricio. Un campione di vita, prima che di sport. Ma Imane ha un problema: è donna, è classificata come donna persino sulla carta d’identità e deve gareggiare «ad armi pari» in un’Olimpiade con altre donne, che quel livello di testosterone ce l’hanno più basso.
E qui scatta il dilemma olimpionico: dove deve gareggiare e contro chi? Contro Angela Carini, napoletana, classe 1968, cresciuta ad Afragola, dove le ragazze mettono il rossetto? Dove fare la pugile, per una ragazza è come dire «non vado in discoteca, devo allenarmi». Mentre, negli stessi giorni, ad Algeri Imane, col suo aspetto mascolino, veniva rifiutata (da ragazza intersex) dagli uomini con le braccia più esili delle sue e magari le chiedevano perché si ostinava a fare boxe in un Paese dove le donne, se va bene e non sono ricche, devono osservare la Sharia?
I dilemmi che questa Olimpiade ha sollevato sono interminabili e non hanno a che fare col solo sport. Può il Comitato olimpico giudicare le vite delle persone per stabilire chi deve gareggiare con chi? In una gara olimpionica dove si confrontano Paesi così lontani per idee, culture, religioni, formazione sociale, condizioni economiche, chi può gareggiare con chi, se non con regole - rigorsamente sportive - certe, chiare e indiscutibili?
Angela, di Afragola, dopo aver preso un pesante pugno da Imane si è consultata con il coach e ha deciso di mollare. Quaranta secondi, come il volo di una farfalla, tanto è durato il match. Il match della sua vita. Pressioni psicologiche, media internazionali che ti giudicano, bombardamenti social sui muscoli del maschio-femmina Khelif che devi affrontare, la famiglia di Afragola che sta investendo tutto su di te: è l’Olimpiade della tua vita, lasci o muori. E lei non voleva morire, ha lasciato. «L’ho fatto per la mia famiglia», ha detto piangendo mentre lasciava il ring, ma ancora non è dato sapere se la sua scelta sia stata davvero «sportiva» o condizionata da tutto quello che con lo sport non dovrebbe c’entrare.
E Imane, l’uomo-donna dell’Algeria che il mondo olimpionico non riesce a classificare? Gare su gare, prima di conquistare il bronzo. Tutti i media del mondo che parlano di lei, crisalide di Algeri che ha il testosterone alto e non sa se è farfalla o bruco, sa solo dare pugni come Nino Benvenuti. E l’Islam di Maometto, che tanto ha pregato, magari non ha saputo darle delle risposte, come Gesù non ha saputo darle ai problemi di Angela , quando pregava ad Afragola. Poi, dopo la tempesta internazionale, arriva il momento clou: il Comitato olimpico dice che è donna alla indispettita premier italiana (che, presa da mille casini e guerre internazionali, non si è accorta che era pure una «patriota» dell’Algeria, come piace a lei) e il caso si è bell’e risolto, in tempo per la gara della vita. Risolto, si fa per dire.
Il medagliere, infatti, arriva con una sfida a Anna Hamori. Campionessa dell’Ungheria, braccia esili, bella e sorridente come il sole che sorge in Est Europa. Lei, senza dubbio, è donna. E il suo compagno, per ricordarlo, denuncia sui social la lotta impari con l’uomo-donna di Algeri che sta arrivando: una bella foto de «La bella e la bestia». Inutile spiegare chi è la Bestia della gara. I social si scatenano, mentre i vertici delle istituzioni che pesnavano di aver risolto il problema («è donna») si incontrano, parlano, cenano, discutono, evitano guerre diplomatiche. Se non fosse accaduto alle Olimpiadi di Parigi, con i riflettori del mondo sulla Senna inquinata, le medaglie, gli sponsor, i diritti d’antenna e le tv, nessuno se ne sarebbe accorto che la sfida del Cyberbullismo, la valanga social, il dibattito internazionale sui media e le foto di quella donna brutta, muscolosa e alta contro la bella ungherese, avrebbero condizionato lo sport (quello olimpionico!) fino a questo punto. Tanto meno si sarebbero accorti delle lacrime di una campionessa di Afragola che ha scelto la famiglia al naso rotto nella sfida della sua vita.
La vita è complessa, molto più complessa delle regole olimpioniche, delle gare classificate, delle frazioni di secondo riprese da una Var per stabilire chi ha vinto, delle pari condizioni di peso, altezza, chili, cromosomi, muscoli e timer. La vita di Imane che sferra pugni ad Algeri, di Angela che piange e molla ad Afragola, di Anna che poteva fare la modella a Budapest e ha scelto la boxe, non vuole le regole. Le rifiuta. E, il più delle volte, siamo noi a darcele interrogandoci se la muscolosa Imane potrà mai allevare un figlio o se Angela di Afragola poteva fare l’ingegnere informatico invece di dare pugni. Le Olimpiadi, invece, dovrebbero rispondere solo alle regole dello sport. Ma tant’è: nell’era dei social, dalle regole di un ring si è passati ai diritti intersex, trasformando il Cio nel Vaticano e un match di boxe in uno scontro tra tifoserie di Stati.