L'analisi

Inchieste, arresti e soffiate: per dissipare le nebbie servono azioni concrete

Sergio Lorusso

La diffusione di informazioni relative a procedimenti giudiziari, che dovrebbero essere riservate (perché inerenti alla fase delle indagini preliminari), e che invece finiscono per trasformarsi in un segreto di Pulcinella grazie alla complicità di ignoti (ignoti?) che trasgrediscono la regola del silenzio

La «nuova» primavera della politica pugliese, scandita da inchieste, fughe di notizie e arresti proprio mentre si approssima la consultazione elettorale per il Comune di Bari, ha ricevuto nuova linfa da dichiarazioni che ripropongono un’annosa questione espressione di un’anomalia tutta italiana: la diffusione di informazioni relative a procedimenti giudiziari, che dovrebbero essere riservate (perché inerenti alla fase delle indagini preliminari), e che invece finiscono per trasformarsi in un segreto di Pulcinella grazie alla complicità di ignoti (ignoti?) che trasgrediscono la regola del silenzio.

Che un Governatore regionale venga informato da «fonti romane» di un imminente provvedimento restrittivo della libertà personale di un «suo» ex assessore, a capo di un’importante Agenzia regionale, e che decida a sua volta di informarlo e di intimargli via WhatsApp di dimettersi, non è cosa banale né consueta, tanto più se quel Governatore è un magistrato in aspettativa con un’ampia esperienza in ambito penale. Anzi, se i fatti fossero confermati, rappresenterebbe un reato, in concreto non facile da accertare essendo difficile individuare chi ha infranto la segretezza che contraddistingue l’attività investigativa.

E se la vicenda - pur nella diversità dei protagonisti - si replica in un altro filone investigativo tra i tanti che hanno raggelato questa primavera tutt’altro che botticelliana della Milano del Sud e, più in generale, della Puglia, si è indotti a riflettere su una distorsione dalle molteplici ripercussioni. Una distorsione che, a seconda dei casi, incide sulla privacy di chi è coinvolto nel processo (ma non solo), sull’efficacia della macchina investigativa o, per altro verso, sulla vita politica.

E così, a seconda degli schieramenti e delle convenienze, si parla di giustizia «ad orologeria», in ipotesi preordinata a colpire in un determinato momento dei personaggi pubblici, piuttosto che di ripristino della legalità, specie in territori in cui l’influenza - visibile o sottotraccia - di organizzazioni illegali e/o di poteri ambigui è forte. È accaduto in maniera eclatante ai tempi di Mani pulite, nel 1992, sta accadendo oggi - ovviamente in maniera lillipuziana rispetto alle vicende di Tangentopoli - in Puglia.

Naturalmente in maniera non comparabile, non foss’altro perché le tangenti dell’epoca erano per lo più orientate a finanziare correnti e partiti politici; ed anche per la portata del fenomeno, assai più diffuso. Tuttavia, sotto il profilo degli effetti, il rischio che le vicende giudiziarie di questi ultimi tempi possano avere conseguenze dirompenti sugli assetti politici è reale, anche perché siamo in una Regione nella quale un sistema di potere consolidato governa ormai da un ventennio.

Il che, di per sé, genera incrostazioni, alimenta rendite di posizione, incoraggia - al di là delle volontà e delle responsabilità individuali - eccessi e abusi. Non è un caso che la democrazia matura si regga sull’alternanza. Lo dicono i politologi, ma lo suggerisce anche il buonsenso, perché a nessuno sfugge che rimanere a lungo in possesso delle leve di comando ingenera fatalmente un vulnus potenziale all’imparzialità e alla trasparenza. Certo, ciò che può accadere non è detto che accada, tuttavia non si può trascurare l’esistenza di fattori di rischio. Il dibattito sulla possibilità di introdurre un terzo mandato per i presidenti di Regione ha tenuto conto anche di tale profilo.

Ciò detto, saranno pur sempre i cittadini con il voto, che nella democrazia rappresentativa resta sovrano, a decidere chi debba governare il Comune di Bari e (nel 2025) la Regione Puglia. Ora più che mai, però, per dissipare le nebbie (fenomeno insolito per questa stagione), occorrerebbero azioni concrete e non operazioni di mero maquillage istituzionale «ad effetto» e dall’«indubbio» sapore propagandistico, rimpasti e rimpastini cari alla prima Repubblica, declinati in questo caso al femminile - dimenticando che le richiamate inchieste giudiziarie non sono certo legate a una questione di genere, coinvolgendo uomini e donne - o l’attribuzione di una delega alla legalità - a quanto pare finalizzata ad una sorta di controllo interno sull’operato dell’istituzione regionale e delle sue innumerevoli diramazioni - affidata ad una persona di forte valenza simbolica e grande levatura morale. Perché questa forma di legalità non può essere un obiettivo di governo, quasi fosse una parte di programma da attuare, ma più semplicemente una precondizione per accedere a cariche e ad incarichi pubblici.

E la politica spot, fatta di etichette e di bollini, non è più in grado di ammaliare la gente.

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