la riflessione
Ma il futuro in gioco non è soltanto quello di chi sta sui trattori
In gioco non è solo il loro futuro, ma anche il nostro. Ed è il caso che i motivi delle proteste vengano esaminati e discussi con i lavoratori e le organizzazioni di categoria
Avessimo vent’anni di meno saremmo a Bruxelles, in cima ad un trattore. A protestare anche noi che agricoltori, allevatori, pescatori, non siamo. A sfidare il filo spinato di sbarramento attorno a quel Palazzo che appare sempre più come un luogo elitario di interessi oscuri. Che pure era, nei sogni di chi lo volle fortissimamente, il luogo dove l’Europa sarebbe diventata una e forte, protetta e pacifica.
E invece. Invece eccoci qui a fare domande alle quali si devono risposte. Domande che non appartengono soltanto a chi urla la propria disperazione perché gli stanno portando via lavoro, vita, futuro. Domande di tutti noi che affrontiamo la vita nella realtà: persino andando a fare la spesa per alimentarci. Noi che da cittadini ci ritroviamo consumatori. In un mondo apparentemente impazzito che vuole, in nome di una transizione capoticamente, farloccamente ecologica, imporre regole che come abbiamo sentito e letto in questi giorni (sui media tutti insieme finalmente destatisi) da agricoltori e pescatori «non stanno né in cielo né in terra».
Ma davvero l’Ue può imporre regole uguali per tutti i produttori di tutti i Paesi senza fare differenze tra un’azienda agricola come la maggior parte di quelle italiane, piccole e a conduzione familiare, rispetto ad una, ucraina o tedesca per fare un esempio, che possiede e gestisce centinaia di ettari? Perché, avendo il ben di Dio che il mondo ci invidia nelle nostre campagne e dunque sulle nostre tavole, dobbiamo acquistare mandarini che arrivano dal Marocco e non già quelli della nostra Sicilia? Perché un italiano abituato da tradizioni secolari a mangiare italiano, dovrebbe acquistare una spigola in arrivo dal lontano Pacifico e non dalle acque generose e profumatissime che lambiscono tutta la nostra Penisola? E il famoso «km zero» di cui da decenni si parla come un non plus ultra, il mangiar sano per eccellenza - tra luogo di produzione e tavola per ogni prodotto - dai pomodori alle mozzarelle, dalla farina all’olio: in nome di quale interesse o pseudo strategia ecologica lo si vuole buttare nell’immondizia? Ed è etico, morale, giusto e conveniente per il nostro Paese accettare le imposizioni comunitarie che metteranno a riposo intere marinerie italiane, con conseguente favore ad altre, di altri Paesi pure non comunitari?
Infine: quando questa infinita manovra di accerchiamento, tra rincari delle materie prime, gasolio ed elettricità, balzelli di ogni genere avrà soffocato anche l’ultima azienda agricola, l’ultimo peschereccio: che cosa mangeremo? Davvero quello che vorranno poche potentissime multinazionali, le quali non hanno bisogno di proteste di piazza, ma solo di lobbisti ben piazzati nei palazzi oscuri? E che ne sarà, tanto per restare in Italia, dei campi e terreni abbandonati? Che ne sarà delle nostre eccellenze alimentari, le filiere che danno lavoro e dignità a milioni di lavoratori e a tutti noi altri la possibilità di scegliere cosa mangiare?
In gioco non è solo il loro futuro, ma anche il nostro. Ed è finalmente il caso che i motivi delle proteste vengano esaminati e discussi con i lavoratori e le organizzazioni di categoria, non decisi unilateralmente da una Ue che appare disconnessa dalla realtà su cui vuole incidere. Si riparta da zero nelle decisioni e ci si confronti con chi protesta. L’Ue non è un dogma in cui credere senza «se» ma, in tutta evidenza, una organizzazione umana fallace. Molto.