Il commento

Quei cervelli in fuga dall’ospizio dell’Italia «pazza»

Piero Liuzzi

«Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi …» diceva il Principe di Salina, il Gattopardo. E non lo siamo solo in senso anagrafico e demografico

Piccolo censimento in una ristretta cerchia parentale e amicale. Figlie e figli tra i venticinque e i trentacinque, massimo quarant’anni, tornate per le vacanze. Vengono da Milano, Roma, Bologna, Londra, Lisbona, Tel Aviv, Strasburgo, Copenaghen, New York, Beirut.

Carriere accademiche, nel management, nella finanza, nella pubblica amministrazione comunitaria, nella logistica, nella sanità. In altre parole, professionalità di cui il Sud è carente in maniera abnorme.

Lavori di qualità, peraltro ben remunerati (di recente abbiamo letto di lauti stipendi corrisposti ad infermieri disposti a lavorare in Svizzera).

Per quanti lavorano all’estero vale il paradosso che delle competenze formate con risorse italiane, le tasse dei cittadini e i denari dei genitori, si avvantaggiano altri Paesi. Ma questo è il meno. Ovviamente, la Puglia per costoro è solo un luogo dell’anima, la memoria di una giovinezza, un ritorno ad affetti familiari ma nessuno - alle condizioni date - si sognerebbe di viverci, di avere a che fare con le ipnotiche lentezze dell’amministrazione pubblica e giudiziaria, con le alchimie autoreferenziali dell’accademia e altri sfaceli.

Spesso si abbandonano a feroci sarcasmi quando i media locali cianciano di «Management del turismo», di marketing di questo e di quello e di altra paccottiglia.

Della «fuga dei cervelli» siamo anche stufi di parlare e così delle carenze nel settore Ricerca & Sviluppo. Stufi anche del gioco delle responsabilità, dell’eterno scaricabarile tra parti politiche, tra centro e periferia, tra «apocalittici» e «integrati» (Umberto Eco, 1964), ruoli disinvoltamente scambiati a seconda che ci si ritrovi al governo o all’opposizione.

«Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi …» diceva il Principe di Salina, il Gattopardo, all’emissario di Cavour venuto a proporgli un seggio senatoriale. E non lo siamo solo in senso anagrafico e demografico.

Che fosse giusto elevare l’età pensionabile era una banale necessità di conto. Che questo arretrasse nel tempo il mondo del lavoro forse non è stato attentamente valutato. Si dirà che si trattava di bagagli d’esperienza ma forse si trattava solo dell’esperienza dell’arretratezza, di pratiche obsolete, di neiges d’antan.

D’altra parte, cosa impedisce al Pnrr di essere una bella occasione di sviluppo se non il cieco corporativismo di un pezzo d’Italia che pur di non rinunciare ad essere sé stesso è disposto a votarsi al fallimento? Cosa impedisce alle pubbliche amministrazioni di essere all’altezza di questa sfida?

Raccolgo battute che al tempo stesso mi divertono e mi amareggiano: «Ma se in vent’anni non sono stati in grado di asfaltare per bene la 16 bis, come potrebbero stare nei tempi del Pnrr?». O peggio: «Io l’Italia ce l’ho nel cuore. Ma è come una zia pazza all’ospizio. Le vuoi bene ma non puoi viverci insieme».

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