Il caso
Il caldo ingiusto di Paola Clemente morta nei campi
Immaginate di essere sotto un tendone in campagna, nell’umido appiccicoso, tra le foglie dei vitigni: lì si trovava Paola Clemente, la bracciante agricola morta per un malore a 49 anni il 13 luglio del 2015
Un caldo insopportabile, simile a quello di questi giorni. Immaginate di essere sotto un tendone in campagna, nell’umido appiccicoso, tra le foglie dei vitigni: lì si trovava Paola Clemente, la bracciante agricola morta per un malore a 49 anni il 13 luglio del 2015.
Lavorava tra i campi per pochi euro all'ora e ogni notte partiva da San Giorgio Jonico per raggiungere il «posto di lavoro» tra Canosa e Andria, tra i grappoli d'uva che lei, insieme a tante altre persone – italiane e immigrate – selezionava per renderli perfetti.
La sua invece non era una vita perfetta, ma Paola non perdeva il sorriso. Dopo le (almeno) sette ore di lavoro e i 300 chilometri al giorno percorsi, aveva la forza di tornare nella cucina di casa e di segnare su un calendario appeso al muro la parola «giornata», che significava «lavoro», ma anche caporalato, pulmini, bisogno di guadagnarsi qualcosa e di contribuire ai bisogni della famiglia.
Le ore probabilmente non corrispondevano a quelle certificate sulla busta paga, così come il suo malore non fu per forza dovuto al diniego di una pausa che forse il «capo» non le accordò.
Ora che apprendiamo le motivazioni della sentenza di assoluzione di coloro che erano imputati per la sua morte (l’articolo di Francesco Casula è a pagina 3) non vogliamo discuterle. Questo articolo non commenta il verdetto, quanto la situazione dei diritti in una regione che da oltre un secolo fa coincidere il suo nome con le lotte per i diritti, per il lavoro, per la vita.
Nella terra di Di Vittorio, quello che accade nel Far West delle campagne (e delle città), è l’odissea infinita che attanaglia il mondo del lavoro e quello del non-lavoro, dei disoccupati pronti ad accettare tutto.
Anche un lavoro nei campi che una madre di famiglia come tante andava a fare lontano da casa, in un luogo che – hanno accertato i giudici e le parole sono nella motivazione della sentenza – non applicava del tutto le misure di protezione dei lavoratori. Figurarsi. Quanti medici e quanta assistenza possiamo sospettare che esista tra i casolari accaldati in cui lavorano e dormono gli agricoltori migranti?
Le cappe di umido e di silenzi creano un’umanità dolente che accetta di tutto: anche di vivere senza quella «dignità e libertà» che il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha giustamente evocato ricordando la morte di Paola Clemente pochi giorni fa. Già, ma quanti sono gli addetti ai controlli, anche rispetto alla sua ordinanza di «divieto» di lavoro nelle ore calde?
Secondo la sentenza, Paola potrebbe aver avuto un malore non direttamente collegabile al lavoro che stava svolgendo e lei stessa aveva lamentato problemi di cervicale e stanchezza. E chissà come si sentono tutti coloro che in queste ore bollenti lavorano ai forni delle pizze o nelle industrie o ancora non hanno un lavoro né una casa.
Non si possono risolvere tutti i problemi del mondo, ma si può tentare di far regolarizzare le tante aziende ancora irregolari, facendo emergere lavoratori che continuano a vagare come fantasmi. Altro che salario minimo, la lotta al diritto minimo è la realtà di un mondo che a volte perde il senso dell'umano e coltiva il profitto, lo sfruttamento, l'indifferenza. Basterebbe tornare a rinverdire una parola che solo apparentemente è vecchia e desueta: etica. Fare proprio questo termine può anche significare che non servono processi, testimonianze, ma solo il vento fresco dei diritti umani. E con questo tempo «caldo» delle (in)giustizie ci farebbe bene.