Il commento

Vittimizzazione secondaria e la violenza sulle donne così «moltiplica» i suoi effetti

Fernanda Fraioli

E' l'espressione usata da una politica nei riguardi di un presunto caso di stupro che riguarda, in qualche modo, un rappresentante dell’avversa compagine

Ora si chiama «vittimizzazione secondaria» ed è balzata agli onori della cronaca perché espressione usata da una politica nei riguardi di un presunto caso di stupro che riguarda, in qualche modo, un rappresentante dell’avversa compagine.

Detta così sembra uno strumento di battaglia politica, faziosa e poco rispettosa delle persone coinvolte nell’esecrabile fatto di cronaca, quasi da farlo percepire all’inizio come un fattoide. Ed invece no, l’evento sembrerebbe reale. Ma di questo si occuperà la magistratura istituzionalmente preposta a tale compito.

Quel che rileva è che il termine non è nuovo, né nella sostanza, né nella forma. Non nuovo perché legislativamente già nel 2006 è stato introdotto ad opera di una Raccomandazione del Consiglio di Europa che l’ha intesa non quale conseguenza diretta dell’atto criminale, quanto piuttosto conseguenza della risposta di istituzioni e individui alla vittima del reato e, a seguire nel 2011, dalla Convenzione di Instambul che l’ha resa un vero e proprio obbligo per i paesi firmatari – tra cui l’Italia che l’ha ratificata due anni dopo – ad evitarne la realizzazione.

Non nuovo perché correvano gli anni ‘70 quando nelle aule di giustizia riecheggiava la stentorea ed indimenticabile voce dell’avv.ta Tina Lagostena Bassi la quale si batteva - tra le tante - per l’affermazione proprio di tale concetto.

L’indimenticabile massacro del Circeo – che, per carità, presentava connotazioni assolutamente differenti dal caso odierno – di fatto ha lasciato trasparire una forma di colpevolizzazione delle vittime e fatto emergere tutta la necessità di evitarla onde consentire l’emersione degli svariati episodi che ancora oggi numerosi accadono e che inibiscono la vittima, portandola a preferire il silenzio alla denuncia.

Con la disonorevole conseguenza che molti episodi non vengono puniti ed il fenomeno anziché ottenere un affievolimento fino a scomparire, consegue una vera e propria recrudescenza. Molte volte, soprattutto in passato, anche nelle stesse aule di giustizia, ma ancor prima al bar o in strada alla lettura della notizia dell’avvenuto stupro, si assisteva alla severa compromissione della credibilità della vittima ed al connesso screditamento della sua vita privata sortendo quale conseguenziale effetto quello di scoraggiare la presentazione della denuncia.

Senza contare il collaterale effetto dell’autocolpevolizzazione della vittima che inevitabilmente, sotto il bombardamento dei commenti e delle giuridiche considerazioni da bar, arriva a chiedersi se fosse effettivamente andata a cercarsela, se fosse troppo succintamente vestita, piuttosto che consumato stupefacenti o alcool che, in condizione di fisiologica compagnia, sarebbe usuale (per quanto esecrabile) tra ragazzi.

Fino ad arrivare a considerare la possibilità riconosciuta dal legislatore circa la tempistica della denuncia, un ulteriore elemento di prova che la vittima, per definizione, mente.

Nelle chiacchiere da bar e nei commenti poco onorevoli dei detrattori, mai alcun riferimento viene fatto alla possibilità riconosciuta dalla legge di presentare la denuncia del subito stupro nell’arco di un anno, mentre, al contrario, il tempo trascorso – che nell’episodio in oggetto è stato solo di 40 giorni – viene usato quale dubbio supremo nella valutazione dei fatti.

Ne siamo poco a conoscenza perché la stampa non racconta nei minimi particolari i fatti di cronaca, ma gli episodi di violenza sessuale hanno tante e tali implicazioni che sfuggono persino agli addetti ai lavori, a cominciare dai sanitari che hanno spesso difficoltà anche a prestare soccorso alle vittime perché incapaci di ricordare circostanze e fotogrammi, visto che già in condizioni di iniziale lucidità mentale sfuggono, a maggior ragione quando si sono assunti alcool e/o stupefacenti che, per quanto deprecabile, non è certamente motivo per abusare del corpo di un’altra persona non consenziente.

La mancanza di consenso era l’altro punto fermo della compianta avv.ta Lagostena che tanto si è battuta in quegli anni nelle aule di giustizia per spiegare che fino a quando non si esprime chiaramente la volontà di congiungersi carnalmente con un’altra persona, non può rivendicarsi alcun assenso che, peraltro, deve sussistere per tutto il tempo dell’incontro, essere espresso esplicitamente e non dedotto dalla presenza della vittima nel medesimo luogo dello stupratore e, per di più, in evidente stato confusionale.

Il fatto di cui stiamo parlando per i protagonisti coinvolti ha registrato un clamore non indifferente, avendo coinvolto politici – dei quali si sono invocate le dimissioni – ma anche giornalisti che hanno deciso di impostare allo stesso modo la vicenda e per i quali numerosi colleghi hanno chiesto provvedimenti esemplari evocando quello che per la categoria è un documento largamente firmato e voluto quale il Documento di Venezia.

Ma non bisogna dimenticare che più o meno in contemporanea si registrava un’altra violenza sessuale con connessa rapina, ai danni di una diciottenne, il cui presunto autore proprio oggi è stato arrestato grazie, oltre ai filmati delle telecamere di zona, all’analisi del DNA ricavato dalle tracce biologiche reperite sul luogo dello stupro dagli inquirenti, confrontate con il DNA del sospettato, il quale è risultato avere precedenti specifici.

Inutile dire che tutto ciò è stato possibile grazie alla denuncia di una giovanissima donna che ha trovato il modo di ricostruire l’accaduto del cui costo nessuna stampa ci darà mai conto, ma che, di certo, non è stata una passeggiata di salute per una ragazza che ancora non si era del tutto affacciata alla vita ed il cui unico scopo, quella sera, era di tornare a casa.

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