L'analisi
Se telefonando (e chattando) alla fine perdiamo la nostra dignità di cittadini
Questo articolo è solo una constatazione, una fotografia di questi mini-cittadini che poi diventano adolescenti e poi ancora adulti, sempre con la faccia piegata su quell'universo online che diventa il suo specchio
In coda. La signora che è accanto si appoggia su un passeggino di ultima generazione, che apparentemente sembra vuoto e che invece –ad uno sguardo più attento – rivela la presenza di un bambino bellissimo, dai piedi rosei gonfi e immobili. Tanto per scambiare due chiacchiere: «Che bello è! Quanto ha?». «Quattordici mesi esatti», dice la mamma. È buono e silente, molto meno smanioso di tutta la gente che è attorno. Gli occhi? Non si possono vedere sono piegati sul video del cellulare che ha in mano. Smanetta a un anno e due mesi come se fosse un vero digital-boy: vede un filmato e sua madre racconta che ha imparato anche a «cercare Youtube nella cronologia e a trovare il suo cartone!».
Impossibile distrarre questo baby-connesso, impossibile destare la sua curiosità, chiedergli come si chiama, fare quelle cose classiche e probabilmente stupide che mettiamo in pratica tutti davanti ad un bimbo che ti guarda, anzi che ti guardava, quando l'infanzia era ancora curiosità. No, il volto di questo bambino ci snobba, è chino su quel rettangolo, che in quel momento è il suo mondo.
Questo articolo non è una predica contro i genitori di piccoli da gestire insieme a tutto il resto che la vita ci riserva ogni giorno. È solo una constatazione, una fotografia di questi mini-cittadini che poi diventano adolescenti e poi ancora adulti, sempre con la faccia piegata su quell'universo online che diventa il suo specchio. Lo siamo ormai tutti. Lontani i tempi in cui filosofi come Karl Popper tuonavano contro la Tv «cattiva maestra» e inveivano per i danni che la sovraesposizione mediatica poteva provocare sulla mente infantile e non. Allora, si elucubravano terribili profezie, si temevano la concentrazione dei media, i monopoli, lo «shampoo» politico, il dilagare del consumismo, l'influenza della pubblicità. Ora, che tutte queste cose sono ormai avvenute e ingoiate... altro che timori di influenze, siamo tutti influencer! Siamo social, siamo iper-rintracciati, il nostro cellulare ha il riconoscimento facciale ormai è tutt'uno con la nostra faccia e la nostra anima.
Nessuno si disturba più a tormentarsi per quello che sembra il destino ineluttabile dell'homo videns. Si chatta ovunque, persino i relatori dei convegni sono lì con il telefono in mano, si distraggono, ripetono cose dette perché non hanno sentito. Dei politici non ci meravigliamo, dei prof, poveretti, tra un'impallinata e l'altra, che vuoi rimproverargli.
Ma a cena, quel cellulare che è perennemente accanto, che consulta soprattutto chi non è persona reperibile h24... non si può proprio tollerare. Per non parlare dei racconti di una qualsiasi individuo: anche l'interlocutore dotato di un vocabolario più ricco della Treccani, non fa che mostrarti il video correlato, il sito, la foto. Le parole non bastano più. E purtroppo non c'è età che tenga. Anzi, su Facebook ormai ci sono più nonni che nipoti; questi ultimi dilagano invece con TikTok e Instagram. Cosa vedono? Provate a spiare un po', ma solo se avete fegato: video, reel, monologhi, somigliano drammaticamente a quelle «buone cose di pessimo gusto» che Gozzano vedeva nelle case. Lui si riferiva al caminetto un po' tetro, ai frutti di marmo protetti dalle campane di vetro, ai fiori in cornice... Il nostro pessimo gusto social trabocca invece di ben altro, una mercificazione da bestiame tatuato digitale ed è lì, nel nostro quotidiano, ad illuminare il volto dell'adolescente, di suo padre, di suo nonno, dei docenti, dei politici, persino di persone che inaspettatamente anche in piena notte ti condividono idiozie talmente enormi, da far tremare i polsi.
A tremare sono anche i nostri indici, o i pollici, sempre pronti a rispondere all'istante, a girare un video, pure di pessima qualità (per non parlare dei selfie), a pontificare, a odiare, a riprendere, a commentare, a mostrare figli, padri morti, candeline spente, cellulite risagomata, promozioni, premiazioni, insulti, complimenti, traguardi.
Le dita lavorano imperterrite ogni secondo: un tempo ci si fratturava giocando a pallone e a tennis, oggi c'è la tendinite da smartphone, c'è il dito a scatto, c'è il tunnel carpale malconcio, c'è l'occhio gonfio da nottata social. A scuole chiuse, poi, sempre meno impegni: il discente si trasforma ancor più in video-dipendente e il suo punto di riferimento è lì, in quel rettangolo di universo digitale nel quale impara o crede di imparare ogni cosa della vita. Tutti gli effetti negativi sull'attenzione sono già stati studiati e non riguardano solo i bambini, ma anche noi, multi-tasking al cento per cento, drogati di cellulomania, attaccati alle tastiere più che ai nostri cari, tanto che la dipendenza telefonica si evidenzia ad ogni atterraggio aereo, quando finalmente l'hostess dà via libera alla riaccensione dei cellulari e il popolo chatta ancor prima di liberarsi della cintura di sicurezza o di guardare dall'oblò. Isolamento, riduzione dei rapporti umani (per non parlare del sesso digital!), aumento dell'impulsività e riduzione dell'autocontrollo sono gli altri effetti provati da ricerche autorevoli sull'uso eccessivo della tecnologia: pensate, abbiamo tutto sotto gli occhi, con le solitudini, le baby-gang, i gesti di follia, la violenza ad ogni età e fascia sociale, l'impossibilità di relazioni interpersonali corrette. Sono le malattie del secolo di cui leggiamo ogni giorno gli effetti nelle nostre cronache. Forse è arrivato il momento di porsi qualche domanda e di intervenire nel proprio microcosmo: un bel «basta!» ogni tanto ci vuole, una dieta per noi e per chi amiamo ogni tanto si può pure decidere. Off, spegnimento... non sono mete irraggiungibili. Si può fare. Anche approfittando dell'estate, degli orizzonti naturali, dei cieli stellati che un video non potrà mai riprodurre, di quella voglia di conoscere il mondo che è un viaggiare anche restando fermi, guardando gli altri, se stessi e quant'altro possa soddisfare la nostra migliore dote, la curiosità! Una dote che lo scrittore Vladimir Nabokov definiva come la vera e unica forma di insubordinazione. Tutti in riga! E se non saremo più curiosi, quanto faremo comodo ai potenti? E così torniamo a quel bambino che smanetta nel passeggino: o è un piccolo genio o è una grande vittima. Di certo è un (non)cittadino di domani.