L'analisi
Il fascino discreto della democrazia condanna i dittatori
Di quando in quando si levano «alti lai» a denuncia di un male irreversibile nella democrazia e nelle sue regole
Di quando in quando si levano «alti lai» a denuncia di un male irreversibile nella democrazia e nelle sue regole. Non è solo un problema di mania delle statistiche - importata dal mondo anglosassone- che misurano la libertà dell'informazione attribuendo voti umilianti all'Italia in base a criteri che forse si merita e forse no, ma è un conto più generale, quello del rating democratico. Oggi saremmo sul versante del declino, con un 60% e più di autocrazie e dittature nel mondo, a fronte delle democrazie che definiamo per convenzione «liberali». Le quali, come in quell'aforisma di Ionesco attribuito a Woody Allen (Dio è morto, Marx è morto ed io mi sento poco bene...), non è che se la passino alla grande.
Parliamoci chiaro: se facessimo una comparazione tra il catalogo dei diritti democratici in voga in Italia negli anni '70 del secolo scorso- dallo statuto dei lavoratori alla democrazia decentrata, dalla centralità del parlamento alla partecipazione elettorale e alla democrazia nei partiti- probabilmente dovremmo ammettere mestamente che un bel pò di passi indietro sono stati compiuti.
O forse che «quel» modello di democrazia partecipata, con la condivisa primazia della politica, spesso identitaria e dunque ideologica, ma capace di produrre anche cooperazioni inaspettate di fronte al pericolo esterno - si pensi all'unità, alla convergenza degli opposti, di fronte al terrorismo - fatta anche di «passioni», è finita lasciando il posto ad una dimensione «a-patica» e totalmente condizionata dalla comunicazione. Dunque effimera quanto uno spot pubblicitario.
Come tutto ciò sia coniugabile con la democrazia delle costituzioni se lo stanno chiedendo i teorici. In Italia e in tutto il mondo occidentale. La democrazia sta cambiando da tempo i suoi canoni adagiandosi nel limbo di una transizione infinita. Ma sarà vero che se la passa così male? In verità si leggono nelle cronache di questo primo scorcio del 2023 indizi che non sono poi così negativi sullo stato di salute delle democrazie, specie se le riguardiamo dal lato dell'imposizione e della sorveglianza dei «limiti», elemento fondamentale nella costruzione di ordinamenti costituzionali che si richiamano ai principi liberaldemocratici. Un primo ci viene dal Parlamento Europeo e dalla sua pronta risposta al Qatergate, l'accusa di corruzione levata contro la vice-presidente Kaili e ad altri parlamentari europei. Non appena è partita l'azione penale-che ha i suoi tempi e le sue giuste garanzie, compresa la presunzione d'innocenza- il Parlamento ha revocato la carica di vice-presidente alla deputata accusata.
L'ha fatto con un voto qualificato e in base alla norma dettata dal codice etico incluso nel Regolamento. Una misura cautelare volta a garantire la reputazione dell'Assemblea che rappresenta tutti i popoli europei. Dal Tribunale dell'Aia, poi, giunge la misura più impattante, quella della condanna di Putin, con tanto di mandato di arresto come criminale di guerra: che lo ammetta o no l'autocrate russo (che non ha mai riconosciuto il Tribunale), quella condanna è come una clava, più pesante delle armi che continuano ad arrivare dal mondo occidentale agli ucraini. Un altro indizio l'ha lasciato Trump inseguendo la strategia delle mani avanti: ha raccontato al mondo che la giustizia americana sta per condannarlo severamente a causa di una storia di corruzione e di pornostar.
In ultimo le piazze di Parigi, esplose per contestare la riforma delle pensioni di Macron, con l'effetto probabilissimo di travolgere Elisabeth Borne, la prima ministra, e inferire un colpo letale al Presidente francese. Dunque la democrazia sarà pure in crisi ma i suoi parlamenti, i suoi tribunali nazionali, le sue magistrature sovranazionali e le sue masse popolari sono in grado di darle contenuto e vitalità. Se non altro per azione speculare e opposta alle dittature: piazze e tribunali che condannino i potenti non è che se ne vedano a Teheran, a Mosca e nei Paesi della cuccagna autocratica. E se qualcuno storce il naso sull'efficacia della sentenza della Corte Penale Internazionale dell'Aia, sarà bene che si ricordi quali sono i «colleghi» di Putin in questa galleria degli orrori: Hitler, Pol Pot, Bokassa, Milošević, tanto per fare qualche nome. E non è che abbiano fatto una grande carriera dopo le condanne.