Il commento

Governo e Cgil, prove di dialogo fra Meloni e Landini per rispondere alla crisi

Michele De Feudis

L’esecutivo più di destra della storia repubblicana «legittima» il ruolo del sindacato «rosso» e viceversa

Ascolto e dialogo. Sono state queste le due linee che hanno caratterizzato l’interlocuzione tra il governo guidato da Giorgia Meloni e la Cgil di Maurizio Landini. L’esecutivo più di destra della storia repubblicana «legittima» il ruolo del sindacato «rosso» e viceversa: in una delle fasi più delicate dal dopoguerra, come riconosciuto dai due duellati, restano le differenze di visione ma si configura un sorprendente terreno comune di confronto. Il riferimento non è solo ai tavoli sui quali si confutano le tesi di Palazzo Chigi e delle parti sociali, ma anche al lessico: la quattro giorni riminese ha riportato al centro del dibattito pubblico il «lavoro» e la necessità di rinnovare e potenziare le politiche industriali nazionali.

Più delle performance della Meloni in Romagna, delle battute sulla Ferragni «metalmeccanica», delle contestazioni vecchio stile e del tirare dritto del premier su fisco e salario minimo (demolito), è il lungo colloquio tra Giorgia e Maurizio (quasi 45 minuti dopo l’intervento nell’assemblea) a confermare non solo la consapevolezza delle reciproche responsabilità, ma anche l’esistenza di una zona franca dove - senza compromissioni - si possono affrontare i dossier più delicati cercando soluzioni e possibili (complesse) condivisioni. Questo leale e duro faccia a faccia non esclude che i sindacati decidano, già la settimana prossima, di proclamare uno sciopero generale, ma consentirà a governo e forze del lavoro di non radicalizzare le proprie istanze, proprio in nome di quell’«unità nazionale» evocata da Giorgia Meloni come paradigma dell’interesse generale.

Con la transizione ecologica che mette a serio rischio migliaia di posti di lavoro nell’automotive (anche in Puglia), e con la crisi energetica che sta falcidiando il manifatturiero, non trascurando il dossier acciaio legato all’Ilva (ancora alle prese con la nebulosa del piano industriale) nessuno possiede la bacchetta magica per risollevare le sorti di industria e occupazione, ma un grande Paese si distingue soprattutto per la qualità del dibattito pubblico animato dalle classi dirigenti. Del resto se è vero che la maggioranza di centrodestra ha i numeri per riformare fisco, regionalismo e politiche salariali, è innegabile che in Italia non si può mai prescindere dalle istanze che provengono dal «Paese reale», di cui il sindacato è parte molto rilevante.

Sul piano politico, inoltre, la Meloni sta prendendo le misure alla nuova leader dem Elly Schlein, in una dialettica che sarà il vero «leitmotiv» da qui alle europee del 2024, in una gara che comporterà anche una inevitabile ridefinizione delle proprie categorie politiche identitarie.

In una battuta della replica finale del congresso di Rimini, infine, c’è la chiave delle ragioni che hanno portato Landini a focalizzare il dialogo con la Meloni, ovvero l’impegno a non commettere un errore di presunzione: «Pensare che quelli che non sono andati a votare o hanno votato a destra, improvvisamente non hanno capito niente». Il segretario della Cgil ha ben compreso che le ragioni dei lavoratori non sono da molti più esclusivo appannaggio del campo progressista e ha sfidato il premier accendendo i riflettori sulla finanziarizzazione della produzione e sulla riduzione di uomini e lavoratori a merce. Temi che hanno innegabilmente caratterizzato la formazione giovanile della leader cresciuta tra Garbatella e Colle Oppio.

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