La riflessione

Sul 41 bis serve riflettere: lo Stato non può annullare il lato umano della pena

Vito Mormando

La vicenda giudiziaria e umana di Cospito è al centro, in questi giorni, di significativi sviluppi ampiamente ripresi da tutta la stampa nazionale

La vicenda giudiziaria e umana di Cospito è al centro, in questi giorni, di significativi sviluppi ampiamente ripresi da tutta la stampa nazionale. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta con la quale esprime parere favorevole alla revoca dell’art. 41 bis; e nei prossimi giorni ci sarà il provvedimento dei giudici della Cassazione. E, tuttavia, il cosiddetto caso Cospito sarà solo il punto di avvio delle mie riflessioni.

Per tutti, il 41 bis è il «carcere duro», l’inasprimento dell’esecuzione del trattamento penitenziario, rispetto all’esecuzione della pena per soggetti detenuti, che si segnalano per una particolare pericolosità criminale.

È la misura massima, all’interno della complessiva dosimetria esecutiva della pena. La giustificazione «teorica» risiede sicuramente nella necessità di differenziare i regimi di esecuzione della pena, rispetto alle differenti categorie criminologiche della delinquenza.

Nella propria storia personale, ci sono soggetti che delinquono per ragioni connesse all’ambiente sociale, perché inseriti all’interno di sodalizi criminali o anche perché espressione di distorte logiche di potere connesse all’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, per cui la richiesta e/o l’accettazione della «mazzetta» ne rappresenta una delle manifestazioni esterne più rilevanti.

È il caso della cosiddetta criminalità dal «colletto bianco» dove la tangente, al pari del mercimonio della propria funzione istituzionale, non è recepita dagli autori del reato nella reale dimensione di disvalore; anzi è il riconoscimento della personale posizione di potere: una cosa che si fa, che si può fare e che rappresenta un motivo di riconoscimento personale.

Esiste indubbiamente una oggettiva diversità di aree criminologiche, al cui interno sono inseriti soggetti, nei cui confronti è assolutamente necessaria una risposta differente: sia nella fase preventiva della applicazione della misura cautelare, che in quella esecutiva finale. Si tratta di soggetti che «vivono» in maniera differente la fase di limitazione della libertà personale; sono diversamente «preparati» ad affrontare fisicamente ma soprattutto psicologicamente il carcere.

La limitazione della libertà deve essere sempre condizionata alle più rigorose verifiche: e si tratta di un tema che deve essere controllato non solo, rispetto alla custodia cautelare, disposta durante la fase delle indagini, ma anche e soprattutto nella delicatissima fase della esecuzione definitiva delle pene, ove aprono istituti giuridici di grande importanza e delicatezza. La pena, lo dice la Costituzione, non solo deve tendere alla rieducazione, ma deve essere applicata secondo umanità.

Il primo problema è, dunque, l’adeguamento delle strutture e dell’ambiente carcerario, secondo i parametri della concreta possibilità di svolgimento del programma rieducativo e secondo il rispetto della dignità umana.

I detenuti, tutti i detenuti, perdono una sommatoria di diritti, ma non possono perderli tutti: il diritto al rispetto della propria umanità deve essere riconosciuto e tutelato sempre e comunque.

Il sovraffollamento carcerario e la inadeguatezza degli istituti penitenziari per tutti i detenuti è la negazione di tali principi.

È dunque auspicabile che il Ministro della Giustizia ed il Csm si facciano carico di un potenziamento delle sezioni di Sorveglianza, che sono presenti negli uffici giudiziari, sia sul terreno dell’ampliamento dell’organico, che dei mezzi e delle strutture.

È una giurisdizione poco nota ai non addetti ai lavori, ma che possiede, invece, una valenza di grande rilievo perché deputata al controllo della esecuzione della pena ed all’applicazione di misure differenti. In questo contesto, l’articolo 41 bis rappresenta una misura eccezionale, che determina una drastica riduzione della libertà personale, e deve essere riservata a casi davvero eccezionali ed emergenziali. Ma soprattutto deve avere la funzione di estrema ratio: una misura sicuramente necessaria alla quale, tuttavia, fare ricorso solo quando tutte le altre sono effettivamente, sulla base di rigorosi criteri di accertamento, inadeguate.

E queste considerazioni valgono in termini ancora più stringenti, per l’applicazione dell’art. 4 bis, che impone il cosiddetto «carcere duro», per soggetti inseriti in associazioni mafiose e/o terroristiche, che abbiano scelto di non «collaborare»: la mancata adesione ad una «rieducazione attesa» non può da sola giustificare l’applicazione di tale drastico trattamento penitenziario.

Credo che sia chiarissimo: con l’art. 41 bis e con l’art. 4 bis siamo al cospetto di un apparato normativo assai pericoloso; un complesso di norme, che può «portare lontano»: lontano soprattutto dal rispetto dei principi e dei valori costituzionali.

Si pensi per un attimo ai numerosi divieti previsti da tali disposizioni quali quello di comunicazione anche con gli altri detenuti e di lettura; nonché alle forme di isolamento e videosorveglianza costante.

È vero che esistono tipologie criminali assai complesse, ma queste misure devono rimanere eccezionali e non possono diventare una pena nella pena; né il condannato un nemico da distruggere: non può farlo lo Stato.

Noi non siamo in guerra; la nostra Costituzione ripudia la guerra e nel contrasto alla criminalità lo Stato non può annullare la dimensione umana della pena.

E così come non può e non deve esistere un diritto penale del nemico sul fronte della costruzione dei sistemi di controllo normativo; allo stesso modo non può e non deve esistere un ordinamento penitenziario del nemico.

Lo dico sempre ai miei studenti!

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