L'editoriale

Eva contro Europa: così la questione morale irrompe a Bruxelles

Sergio Lorusso

L’etimologia del sostantivo «corruzione» rimanda al verbo latino «corrumpere», composto da con- e rumpere, dunque ad una rottura, all’alterazione di un equilibrio

L’etimologia del sostantivo «corruzione» rimanda al verbo latino «corrumpere», composto da con- e rumpere, dunque ad una rottura, all’alterazione di un equilibrio. Ed è quello che sta accadendo nelle istituzioni europee in conseguenza del «Qatargate», tra risolute prese di distanza e silenzi non sempre limpidi.

A prevalere, tuttavia, è un senso di attesa misto al timore tangibile di nuovi e più eclatanti sviluppi, di ben più ampi coinvolgimenti che trasformino le mele marce – come qualcuno forse un po’ frettolosamente ha detto, adottando la (poco fortunata) narrativa del «mariuolo» isolato (correva l’anno 1992) – nelle cuspidi di un sistema diffuso e consolidato, operante da tempo sottotraccia a Strasburgo.

Fermi restando gli sviluppi giudiziari – sui quali è ancora troppo presto per potersi esprimere – è certo che l’immagine del Parlamento europeo risulta fortemente incrinata: finora i suoi avversari ne contestavano l’inefficienza, la farraginosità delle procedure, l’eccessivo condizionamento delle politiche interne dei singoli Stati; ora sembra potersi affermare che l’istituzione sovranazionale non ha rivali quanto a comportamenti illeciti tesi all’arricchimento personale. Comportamenti che condizionano probabilmente le scelte di un organo sino a ieri considerato – forse troppo superficialmente – un inutile orpello nella geografia dei poteri dell’UE. Neanche le istituzioni europee, insomma, sono immuni rispetto all’invincibile morbo della corruzione. Con grandi ricadute in termini di credibilità.

Del resto che la corruzione sia una «debolezza» intrinseca dell’umanità, per la quale non si conoscono vaccini, lo dimostra la storia: ad Atene le accuse di corruzione, non sempre fondate e talora costruite ad arte, costituivano uno strumento di lotta politica (si pensi a Demostene); nella Roma repubblicana spicca il celebre caso di Verre, controverso governante dedito ad accumulare potere e ricchezze personali più che ad amministrare la cosa pubblica, il cui processo segna il debutto di Marco Tullio Cicerone nell’agone pubblico; né il passaggio all’Impero determina un impeto di moralizzazione, se è vero che – come si legge ne Gli affari del signor Giulio Cesare di Bertolt Brecht – «gli abiti dei governatori erano fatti solo di tasche».

La corruzione, tuttavia, nel mondo contemporaneo è cambiata. Se infatti non si può non essere d’accordo con Norberto Bobbio quando afferma che il degrado morale non riguarda soltanto le élite, in quanto «tra chi sta dentro il palazzo e chi sta fuori c’è una corrispondenza», non è più vero che la corruzione «nasce soprattutto dal bisogno di procurarsi l’enorme quantità di soldi che i partiti e le loro correnti divorano», perché la tradizionale forma-partito si è dissolta e prevalgono i personalismi con le relative deviazioni tese a migliorare lo status finanziario individuale.

Ne è la riprova – se le accuse verranno confermate – Eva Kaili, protagonista al femminile del Qatargate, passata in pochi anni da accorsata conduttrice tv a elemento di spicco del PASOK prima e del Parlamento europeo poi. Le valigie colme di denaro fanno pensare più ad un film di gangster (o magari di trafficanti d’armi o di stupefacenti) che ad un austero europarlamentare proprio dell’immaginario collettivo: quasi un’«Eva contro EU».

Per restare nell’ambito della settima arte, è di Woody Allen l’affermazione corrosiva secondo cui «purtroppo, i nostri politici sono o incompetenti o corrotti. Talvolta tutt’e due le cose nello stesso giorno». Qualunquismo o realismo? Quale che sia la risposta preferita, è certo, ormai, che la corruzione non è né di destra né di sinistra, ma coinvolge un’altra categoria, l’etica pubblica, troppo spesso sfregiata da chi – come diceva Leo Longanesi – pensa «che la morale sia la conclusione delle favole».

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