L'analisi

Reddito di cittadinanza. Basta ipocrisie: serve, ma si miri alla formazione

Fabiano Amati

In un Paese moderno, i programmi di formazione dovrebbero essere più avanzati che nelle fabbriche

Il reddito di cittadinanza va bene com’è, salvo una modifica: eliminare la parte ipocrita. L’illusione di poterlo considerare temporaneo, sino all’occupazione, per un lavoro che non verrà mai; perché il reddito di cittadinanza è generalmente una misura sociale per aiutare chi non ha molto da offrire al mondo del lavoro, se non in settori saturi, a prescindere da fisiologiche furberie e storture da cui sono afflitti tutte le attività umane, comprese le leggi. E quindi o il reddito o la fame.

Ma in un Paese civile possiamo permetterci la condanna di qualcuno alla fame? No e quindi il reddito, ma non possiamo nemmeno evitare di andare al dunque.

Bisogna rivoluzionare le politiche della formazione. Il mondo del lavoro chiede, per quasi tutti i lavori, specializzazioni accordate con l’informatizzazione, le catene di produzione o le più sofisticate macchine a controllo computerizzato. E il tutto sempre in scadenza per il sopraggiungere di quotidiana innovazione e robotizzazione; una gara velocissima di virtù, genio e bellezza, senza che nulla possa arrestarla.

Non è frutto del caso, infatti, la statistica di ampie offerte di lavoro non assegnato per carenza di domanda. Una statistica peraltro crescente, perché crescente è il livello d’innovazione.

In un Paese moderno, i programmi di formazione dovrebbero essere più avanzati che nelle fabbriche. Dovrebbero avere l’orologio almeno cinque minuti avanti. E invece accade il contrario. Mentre la fabbrica produce il robot per la rasatura, i formatori sformano esperti di affilatura delle lame dei vecchi rasoi. Prima arriva la fabbrica e poi, dopo almeno un lustro, i programmi di formazione delle istituzioni pubbliche. Con conseguenze paradossali: all’atto della conclusione del percorso di formazione si festeggia l’acquisizione di una competenza per lavori ormai fuori mercato.

Ribaltare le politiche di formazione, al costo di creare subbuglio, finanziando programmi ad altissima innovazione e magari affidandoli direttamente alle imprese, è un programma in grado di sterilizzare progressivamente il reddito di cittadinanza, perché nessun uomo è contento di guadagnare meno se può guadagnare molto di più.

Riformare la formazione, centralizzando la decisione sui criteri (altro che autonomia differenziata) e così sottraendoli da un regionalismo molto propenso all’ignavia dinanzi a cambiamenti in grado di dispiacere, comporterebbe una pluralità di effetti vantaggiosi, compreso quello di ridurre la spesa per reddito di cittadinanza.

L’innovazione nella formazione riduce il costo sociale delle persone espulse dal mercato del lavoro e bisognose di aiuto per sopravvivere; non si combattono gli effetti chiudendo gli occhi sulla causa.

L’Italia è un Paese con politiche di formazione fondate per corrispondere più ai costi esorbitanti dei complessi ingranaggi della macchina formativa che alla domanda di occupazione. Un vizio, questo, antichissimo, comune alle politiche sociali e descritto sin dal 1877 da Jessie White Mario ne La miseria in Napoli: la burocrazia della formazione e dell’assistenza divora la maggior parte delle risorse.

Anche per questo siamo sempre alle prese con l’aumento della spesa pubblica, ossia nell’uso smisurato delle tasse pagate dai cittadini, consolidandoci sempre più al vertice dei Paesi europei con maggiore spesa pubblica rispetto al PIL (siamo al secondo posto, dopo la Francia); nel 2022 il 54,3%, pari a 1.890miliardi di euro, con un incremento del 3% rispetto al 2021.

Un Paese, insomma, i cui numeri dicono, senza rischio di smentita, la forte impronta statalista, improduttiva, conservatirice e refrattaria a ogni piccolo vagito di buon senso.

Ma questa è una predica inutile, perché come al solito il problema non è la logica ma la paura di riformare e bruciare barbe e parrucche. E allora avanti così: reddito di cittadinanza «sì», reddito di cittadinanza «no». Per far credere ciò che non è, e non prendersi la briga di scegliere il campo delle parole chiare.

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